Corriere della Sera, 9 ottobre 2024
Bografia di Paolo Kessisoglu
Cosa sognava di fare da grande?
«Il chitarrista».
E la prima chitarra chi gliela regalò?
«I miei genitori, a 7 o 8 anni, per Natale. Ricordo che ebbi una dispensa particolare: siccome mi era salita la febbre a 40, potei aprire il regalo un giorno prima».
Ha suonato con i Deep Purple. A quale altro concerto vorrebbe imbucarsi?
«Forse a quello dei Coldplay, o anche degli Oasis».
Comincia così la conversazione con Paolo Kessisoglu nel suo appartamento milanese, la figlia Lunita sul divano che forse ascolta o forse no, ma illumina il padre di orgoglio e tenerezza quando dice che vorrebbe diventare regista e intanto si allena ad aprire la mente e a creare nuove immagini studiando Filosofia all’università. Ci incontriamo per parlare di C’è Da Fare Ets, l’associazione non profit che ha fondato nel 2023 con la nuova compagna, Silvia Rocchi, e che proprio questa settimana scende in campo a Milano per parlare di disagio psicologico nell’età evolutiva all’Aedicola Lambrate con Matteo Bussola, Mario Calabresi, Katia Follesa, Matteo Lancini e altri. L’evento culminante sarà sabato, in piazza Duomo, con La Grande Pagina Bianca, che l’artista Ivan Tresoldi riempirà di contenuti assieme ai passanti: alcune parti saranno poi ritagliate per farne opere d’arte da mettere all’asta.
I suoi genitori che lavoro facevano?
«Mio padre Pietro commerciante; mia madre Graziella la mamma, dopo che siamo nati mia sorella Federica e io».
Sua sorella che lavoro fa?
«È sempre stata la studiosa di casa, io lo scapestrato. Gestisce grandi numeri per l’Asl di Genova, ma in tarda età ha cominciato ad appassionarsi di teatro».
Il teatro è stato il suo primo amore. Le è spiaciuto non essere diventato «il nuovo Gabriele Lavia»?
«A quei tempi il mutuo non lo pagavi con le serate. E solo se ti chiamavi Lavia o Glauco Mauri potevi prendere un milione a replica».
Il teatro, però, è ritornato. E nel frattempo ha fatto anche televisione, cinema, musica. Dove si diverte di più?
«Un po’ dappertutto: il bello del mio lavoro è che sembra uno, ma è fatto di tanti mestieri, è difficile annoiarsi. Con il teatro e il cinema mi trovo più a mio agio rispetto alla televisione, che paradossalmente è quella che ho bazzicato di più».
Si è mai sentito in stato di grazia, perché faceva quello che desiderava?
«È successo tante volte. Ma se dovessi sceglierne una, è la partecipazione all’unica mega produzione internazionale: Asterix alle Olimpiadi».
Cosa c’era di diverso rispetto agli altri film che ha fatto?
«Di diverso c’è che si apre l’ascensore e ci trovi Alain Delon con Benoît Poelvoorde. Oppure vai in un camerino che pensi sia per sei e invece scopri che è il tuo, magari con un catering per un banchetto nuziale. O fai una scena con Depardieu e lui non c’è».
Come è possibile?
«Perché lui fa solo i primi piani. Per tutto il resto ci sono le controfigure».
Un ricordo di Delon e Depardieu?
«Del primo non ho una immagine bellissima, perché fece una battuta molto razzista sui giocatori della Francia dopo la partita che vincemmo noi agli europei: infatti lui era contento. Depardieu era molto simpatico, ma anche molto pesante: volgarissimo, non maleducato, continuava a fare battute sul sesso».
Con chi le piacerebbe lavorare, in futuro?
«Più che con degli attori, con due registi: Paolo Sorrentino e Luca Guadagnino».
Ha conosciuto De André?
«No, anche se mi sarebbe piaciuto molto perché mio padre me lo faceva sentire mattina, pomeriggio e sera. Portava come un oracolo questo famoso lp che De André gli aveva firmato, perché andava a comprare i tappeti nel suo negozio: La buona novella. Adesso ce l’ho io».
A Genova qual è il suo posto del cuore?
«Santa Chiara».
Quale mare preferisce?
«Ho bazzicato sia la parte di Levante che la parte di Ponente. Ma oggi se devo andare al mare vado a Sori».
Dov’era il 14 agosto 2018?
«A San Francisco, in vacanza. Lessi del crollo al mattino. Mi ha sconvolto, perché sul ponte Morandi ci sono passato tantissime volte, conoscevo a memoria tutte le giunture, per me era un monumento».
Scrisse una canzone.
«Il giorno stesso mi trovai in una libreria con un pianoforte e le note sono cadute sui tasti. Tornato in Italia quel motivetto continuò a tornarmi in testa, così ho buttato giù il testo e ho trovato il modo di farlo avere a Ivano Fossati».
Ha coinvolto 25 artisti e avete cantato insieme «C’è da fare». Una Band Aid italiana.
«Con i fondi raccolti abbiamo offerto assistenza domiciliare a bambini e anziani colpiti dal crollo. È la cosa che sono stato più orgoglioso di mostrare ai miei genitori: vedermi cantare al fianco di Gino Paoli e Gianni Morandi, i loro miti».
Con Morandi fece Sanremo, nel 2011. Chi vinse?
«Vecchioni! Sanremo è un’esperienza folle: è come se per 20 giorni ti mettessero dentro un manicomio, non esiste nient’altro. Prima di salire sul palco mi tremavano le gambe. Di quel Festival ricordo il pianto a dirotto mio e di Luca (Bizzarri, ndr) alla fine, e poi Gianni Morandi che non si trovava perché era andato a fare un bagno di folla».
A lei la fermano per strada o nei ristoranti?
«Sì, spesso, e talvolta me ne lamento, perché sono orso, ligure. Però dico che è peggio quando non ti fermano».
La sua canzone per Genova ha dato il nome a C’è Da Fare, un ente del terzo settore dedicato al disagio giovanile.
«Avevo cominciato a leggere materiale sugli effetti del Covid negli adolescenti. Con una figlia, ero molto attento».
Ha fondato l’associazione con la sua nuova compagna, Silvia Rocchi.
«Lei è la direttrice generale, oltre a essere cofondatrice. L’impulso è stato suo».
Siete andati dal Papa.
«La nostra associazione nasce con raccolte fondi legate a eventi sportivi con la bici e il Vaticano ha una sua nazionale, la Vaticano Cycling Team, con la quale abbiamo fatto un’asta. Il Papa ci ha accolto in audizione con tanti altri sportivi e gli abbiamo regalato la nostra divisa ciclistica».
Quanto conta condividere progetti nella coppia?
«Moltissimo, direi che è fondamentale».
E Luca Bizzarri lo ha coinvolto in C’è Da Fare?
«No, teniamo separate le nostre vite individuali».
Quando ha un problema personale lo chiama?
«No, ho amici più vicini, sebbene Luca sia una persona che stimo sul piano professionale, e gli voglio bene. Ma le nostre vite sono separate».
È ancora vegetariano?
«Sì, però più inclusivo. La bistecca non la mangio, ma magari a un aperitivo posso prendere una fetta di salame. Il pesce lo mangio solo fuori».
È credente?
«Non credo molto in un Dio cristiano. E non mi importa granché di sapere se Gesù è esistito o no. C’è però una ricerca di Dio dentro di me».
Chi l’ha salvata a Paros quando ebbe l’incidente in moto?
«Ho pensato a un Dio».
A chi si sente più grato?
«Ai miei genitori. Perché si sottovaluta il valore della bontà e loro hanno sempre mantenuto la barra dritta».
Sono mancati a pochi mesi l’uno dall’altro. Li sogna?
«Pochissimo. Però ci parlo, molto più di prima».