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 2024  ottobre 09 Mercoledì calendario

Il Vajont e Tima Merlin raccontati dal figlio di lei

Quella del Vajont e il figlio di quella del Vajont. Dietro una grande donna, spesso, c’è un bambino che ascolta e osserva. «La mia era una mamma strana, perché faceva un lavoro da uomini. Quando litigava al telefono gridava tantissimo, ma non come il personaggio interpretato da Laura Morante nel film», ricorda con un sorriso Toni Sirena, il figlio di Tina Merlin, che fu soprannominata “la cassandra del Vajont”. Partigiana, giornalista, femminista, comunista. È stata lei, per lungo tempo, a scrivere suL’Unità che la diga del Vajont era pericolosa. Rimase inascoltata e, 61 anni dopo, si ricordano ancora una volta i 1.910 morti travolti da acqua e fango, dopo che una frana sul monte Toc fece straripare l’enorme bacino realizzato per una centrale idroelettrica. L’onda sommerse i comuni di Erto e Casso e Longarone. «Ma non mi piace la retorica della giornalista d’assalto, il suo non era un lavoro solo individuale. C’è sempre stato anche il partito», dice quest’uomo di 73 anni ormai in pensione, dopo aver fatto anch’egli il giornalista.
Toni Sirena, davvero dietro molte delle posizioni assunte da sua madre c’era il partito?
«Certo. Mia madre si batteva per la gente e per il rispetto dell’ambiente ma quelle erano anche le posizioni del Pci. Scriveva nel loro giornale e interpretava la linea attraverso le sue battaglie sociali. Dopo il disastro scrissero: l’avevamo detto. La Dc diede loro degli sciacalli, come pure Indro Montanelli».
Chi era davvero Tina Merlin?
«Faceva la staffetta per la brigata partigiana, entrò nella resistenza a 17 anni: Joe era il suo nome di battaglia.
Una volta stava trasportando una ricetrasmittente rubata ai tedeschi in un sacco sulle spalle. Le guardie la fermarono, le chiesero cosa ci fosse dentro. Lei rispose kartoffeln, patate. La lasciarono andare. Questa era mia madre».
Senza paura.
«Era una ribelle, aveva fatto solo fino alla quarta elementare perché veniva da una famiglia povera. A 12 anni aveva lavorato come domestica in una villa di Milano ma non le piaceva essere trattata come una serva. Così una notte scappò, fuggì dalla finestra».
Come viveva la militanza?
«Un giorno mi disse: per me la resistenza non è stata un evento chiuso, ma la porta attraverso la quale sono passata in un altro mondo. Mi sono arruolata per essere una donna libera, al pari degli uomini».
Com’era il rapporto con suo marito, suo padre?
«Mio padre, Aldo Maria Sirena, era figlio dei proprietari di una delle due pasticcerie di Belluno. Era statocomandante di due brigate partigiane. Si sposano nel 1949 e lui ha sempre portato tanta pazienza. La assecondava, accettava la sua diversità».
Come si erano organizzati a casa?
«Mio padre spesso era fuori per lavoro e quindi io passavo molto tempo con lei. La accompagnavo ai servizi che le commissionava il giornale».
Di quali tematiche si occupava?
«Prediligeva i temi sociali. La diga del Vajont è stata la sua grande battaglia. È morta con il rammarico di non aver fatto abbastanza».
Ricorda la notte del disastro?
«Avevo 13 anni, i miei andarono al cinema a Belluno e io rimasi a casa da solo. Al cinema, nel frattempo, era mancata la luce: il film si era interrotto. Mamma e papà tornarono a casa intorno alle 23.30, partirono subito per Longarone ma lifermarono ai posti di blocco».
Sua madre riuscì a fare la cronaca subito quella notte?
«Chiamò da un telefono pubblico, dettò il pezzo a braccio a un praticante in redazione a Milano.
Purtroppo nel titolo finì la prima versione, secondo cui era stata la diga a crollare. Provò a ribattere, evidenziando che invece si era trattato di una frana. Ma nel titolo rimase il crollo della diga».
Si è mai sentito trascurato?
«A volte sì. E poi il protagonismo di mia mamma non era visto sempre bene. Una volta il prete del Duomo disse ai miei amici di non giocare con me, perché ero figlio di comunisti».
Questo la metteva in imbarazzo?
«Sapevo di avere una madre ostile ma stimata. Viveva il conflitto ma poi amava la vita. Sono contento di avere avuto una mamma così, anche se a volte era pesante e lo è ancora».
Perché?
«Perché sono e sarò sempre il figlio di Tina Merlin. Ancora oggi la gente mi chiama perché sono suo figlio. Non è facile vivere tutta la vita all’ombra di qualcuno».
Se fosse viva oggi quale sarebbe la sua battaglia?
«Sicuramente la diga del Vanoi. E non sarebbe proprio d’accordo».
Delle Olimpiadi Milano-Cortina e della pista da bob cosa penserebbe?
«Il costo ambientale non è considerato perché non fa Pil, questo direbbe».
Farebbe partedei movimenti femministi?
«Probabilmente sì ma vorrebbe fare questa rivoluzione insieme agli uomini, non contro di loro».
Lei segue anche l’associazione culturale Tina Merlin, ce l’ha un obiettivo?
«Vorrei che questa associazione, che si occupa di donne, di montagna e delle comunità colpite da eventi calamitosi, andasse avanti anche senza di me».