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 2024  ottobre 09 Mercoledì calendario

La faida tra magistrati che ha mandato in soffitta la stagione del pool

MILANO – La condanna per Fabio De Pasquale è in primo grado, quindi potrebbe modificarsi, ma il segnale che arriva dal tribunale di Brescia è fortissimo. E obbliga a riflettere su che cosa sia accaduto alla Procura milanese, gloriosa e granitica nel passato, sotto la gestione di Francesco Greco, che pure di “Mani pulite” era stato un positivo protagonista.
È stato infatti Greco a volere fortissi-mamente De Pasquale come braccio destro nel dipartimento incaricato di castigare le tangenti che si pagano anche all’estero. Via via che si scoprivano le carte della procura sull’Eni, si levavano però da più parti polemiche e perplessità. E non (o non solo) perché l’Eni farebbe parte dei “poteri forti”, ma proprio per i metodi d’indagine e anche di “non-indagine” degli inquisitori. Comportamenti e atteggiamenti tali da turbare non solo le difese, ma anche un altro pubblico ministero: e cioè Paolo Storari, che – soprattutto dopo la segretissima e capillare inchiesta Doppia Curva sugli ultrà delle squadre milanesi – oggi spicca come il magistrato che sa come non tracimare dal ruolo.
Sono agli atti le sue varie mail che incalzano i colleghi sul perché non venissero prese in esame le prove a favore di Claudio Descalzi, amministratore delegato di Eni. Com’è agli atti anche un’altra circostanza: non avendo ottenuto risposte, Storari si era rivolto per un consiglio a un’altra vecchia gloria del pool Mani pulite, e cioè Piercamillo Davigo, allora membro del Consiglio superiore della magistratura. E pure lui sanzionato da Brescia per la troppa disinvoltura nell’utilizzo delle informazioni ricevute.
In altre parole, è emerso un “dietro le quinte” dell’investigazione molto preoccupante per il metodo: il pm, dice la legge, cerca prove anche a favore, se ci sono, e non solo contro. La memoria è d’aiuto: negli anni 90 la procura milanese, a guida Francesco Saverio Borrelli, era stata capace di ottenere migliaia di confessioni da parte di politici e imprenditori; di contribuire all’azzeramento della Prima Repubblica con il suo gravame di corruzione sistemica; di fermare per sempre i maneggi dell’avvocato e onorevole Cesare Previti, che comprava e aggiustava sentenze in Cassazione per conto dei suoi ricchissimi clienti; di arrestare in pochi anni oltre 4mila gangster e di sbaragliare interi clan di ’ndrangheta, intercettando persino un clamoroso giuramento di affiliazione.
De Pasquale, in quella procura, non faceva parte del pool Mani pulite. Tra lui e Antonio Di Pietro non c’era il minimo feeling. Era stato De Pasquale a negare gli arresti domiciliari a Gabriele Cagliari, ex presidente Eni, che poi verrà trovato morto nel carcere di San Vittore nel tragico luglio del 1993, funestato dalla tragedia di Raul Gardini e dalla bomba di Cosa nostra in via Palestro. Sempre De Pasquale, indagatore instancabile e segugio dei conti esteri, aveva ottenuto l’unica condanna di Silvio Berlusconi, quella a quattro anni per frode fiscale, che poi costò all’ex presidente del Consiglio la perdita dei benefici del parlamentare e l’affidamento ai servizi sociali in un centro Alzheimer a Cesano Boscone.
In aula si tenne un siparietto non banale. Durante una delle troppe pause, Berlusconi si avvicinò quasi saltellando a De Pasquale per dirgli, con un sorriso: «Ah, lei è quello cattivo». De Pasquale si girò. Era una maschera di pietra: «Si contenga», ringhiò. L’imputato Berlusconi rimbalzò indietro, sibilando un gelido: «Si contenga lei con le sue accuse». Al che De Pasquale ribadì la sua essenza: «Le accuse sono il mio lavoro, le battute no».
De Pasquale ha davvero fatto dell’accusa senza sconti il suo orizzonte. Ma se in passato si confrontava con capi come Borrelli, D’Ambrosio, Bruti Liberati, capaci di far sentire in colpa il collega che esagerava (Di Pietro compreso), con Greco sboccia quel “qualcosa”, amicizia compresa, che costa la condanna di ieri: e cioè si dà il via a una specie di partita a testa bassa dei “buoni” (loro) contro i “cattivi” (Eni).
Le regole del gioco giudiziario, però, non contemplano i personalismi, anche se si è convintamente alla guida di un’inchiesta costata molti milioni e molti anni di lavoro. L’unico che cerca di arginare la macchina in corsa è – ripetiamo – Paolo Storari, il quale indagando sulla strana Loggia Ungheria si accorge del depistaggio ai danni di Eni: e lo proclama. Ma né Greco, che per diventare procuratore capo al posto di Alberto Nobili e di Ilda Boccassini ha fatto fuoco e fiamme, né De Pasquale, che da procuratore aggiunto ha meno freni inibitori, rallentano la corsa. Lo sbandamento diventa più palpabile quando il processo tenta di travolgere persino il giudice Marco Tremolada, che nel dibattimento appariva perplesso sulle presunte mazzette sborsate qui e là per aprire un miliardario giacimento in Nigeria.
Tale è stato insomma il ginepraio Greco- De Pasquale da convincere il Csm a far sbarcare al quarto piano del Palazzo di giustizia – per la prima volta – un magistrato non di “rito ambrosiano”, come Marcello Viola. Il quale, nella conferenza stampa che ha mostrato le pesanti infiltrazioni della ’ndrangheta nella “Scala del calcio”, era ben felice di sedere accanto a Storari, allievo prediletto di Ilda Boccassini. Sembra una nemesi, questa condanna di De Pasquale; e magari per qualcuno, all’Eni come in procura, un po’ lo è.