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 2024  ottobre 09 Mercoledì calendario

Il Giuli-pensiero

Può capitare, capita, è capitato a tutti. Freschi di un esameuniversitario andato particolarmente bene (e qui si viene da un trenta in Teoria delle dottrine teologiche alla Sapienza), capita che resti in canna qualcosa.
Capita di volere ancora dare e dare e dare, specie se si è uno studente lavoratore alla prima laurea.
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Può capitare, capita, è capitato a tutti. Freschi di un esame universitario andato particolarmente bene (e qui si viene da un trenta in Teoria delle dottrine teologiche alla Sapienza), capita che resti in canna qualcosa. Capita di volere ancora dare e dare e dare, specie se si è uno studente lavoratore alla prima laurea. E con la mano calda e una certa comprensibile ma malriposta aspettativa si finisca per dare a chi non chiede, dire altro che non sia solo “sì sì no no” come insegna il Vangelo o peggio dare le classiche perle ai classici porci come la stessa fonte, senza offesa, ammonisce o ancora semplicemente parlare a sproposito, magari di fronte all’uditorio sbagliato. Questo deve essere accaduto ad Alessandro Giuli che ieri in una alata audizione alla Camera ha fatto sbottare, con un riferimento certamente non all’altezza di quelli del ministro della Cultura ma sicuramente più comprensibile ai più e forse più liberatorio, il deputato dei 5 Stelle Gaetano Amato. Il quale raccogliendo il pensiero che per una volta accomunava il campo largo ha confessato di aspettarsi comparire da un momento all’altro nel discorso di Giuli un «come se fosse antani» o «con scappellamento a destra». Insomma, la classica supercazzola del conte Raffaello Mascetti di Amici miei. E così, evento non raro nella storia italiana, in pochi minuti il Parlamento precipita in un flusso di coscienza sospeso tra la commedia dell’arte e una versione vertiginosa di quello che all’ordine del giorno recava solo un asettico: «Il ministro della Cultura Alessandro Giuli illustra le linee programmatiche del suo dicastero (Camera deputati, Sala del Mappamondo, ore 11)». E finiscono in secondo piano le cose politicamente sensibili che Giuli dirà su riforma del tax credit al cinema, biblioteche ed editoria, revisione dei musei gratis sulla scia del ticket per il Pantheon del predecessore, oltre all’annuncio delle solite mostre ecumenico- egemoniche, una su Gramsci, vero idolo del ministro, una su Pasolini e una, per non sbagliare, su Mishima.
Il passaggio da brividi viene preannunciato dallo stesso laureando Giuli che candidamente avvisa onorevoli e senatori che l’introduzione sarebbe stata «un po’ teoretica». Un po’, dice con notevole understatement. Eccola. «La conoscenza è il proprio tempo appreso con il pensiero: chi si appresta a immaginare un orientamento per l’azione culturale nazionale non può che muovere dal prendere le misure da un mondo entrato nella dimensione compiuta della tecnica e delle sue accelerazioni. Il movimento delle cose è così vorticoso, improvviso, così radicale nelle sue implicazioni e applicazioni che persino il sistema dei processi cognitivi delle persone e non solo delle ultime generazioni ha cominciato a mutare con esso». (Tentativo di traduzione ad sensumcon il rischio di perdere in letteralità e in citazioni hegeliane: la rivoluzione delle tecnologie ci ha reso se non un po’ meno intelligenti probabilmente più rallentati nel decifrare, apprendere e memorizzare le informazioni, anche le più comuni).
Neanche il tempo di metabolizzarela prima frase (conoscenza, tempo, pensiero: categorie che da sole meriterebbero una vita di riflessione) che Giuli affonda: «Di fronte a questo cambiamento di paradigma la quarta (quarta? ndr ) rivoluzione epocale della storia delineante una ontologia intonata alla rivoluzione permanente dell’infosfera globale, il rischio che si corre è duplice e speculare: l’entusiasmo passivo che rimuove i pericoli della ipertecnologicizzazione e, per converso, l’apocalittismo difensivo che rimpiange un’immagine del mondo trascorsa impugnando una ideologia della crisi che si percepisce come processo alla tecnica e al futuro. Intese come una minaccia». (Versione in prosa depurata dal Kali Yuga evoliano: c’è chi stravede acriticamente perle tecnologie e chi ne è terrorizzato. Né l’uno né l’altro atteggiamento vanno bene). E infine, con una deduzione logica forse non proprio immediata il ministro si domanda e domanda agli astanti: «Siamo dunque precipitati nell’epoca delle passioni tristi?».
Fortunatamente la domanda non riguarda Spinoza ad apertura di libro ma è retorica e la risposta arriva dalle labbra dello stesso Giuli: «No. Fare cultura è pensare sempre daccapo e riaffermare continuamente la dignità alla centralità dell’uomo e ricordare la lezione di umanesimo integrale che la civiltà del rinascimento ha reso universale: non l’algoritmo ma l’umano, la sua coscienza, intelligenza e cultura immagina, plasma e forma il mondo». Quest’ultima parte, va detto, è chiara. Specie se accompagnata dagli esempi che il ministro si preoccupa di elencare: la disputa tra un fronte culturale progressista e uno conservatore è una «dialettica errata. Si tratta di pensare: Pitagora, Dante, Petrarca, Botticelli, Verdi, insieme con Leonardo da Vinci e Galilei, Torricelli, Volta, Fermi, Meucci e Marconi, e al di là della declamazione dei grandi nomi della cultura umanistica e scientifica italiana, è necessario rifarsi a questa concezione circolare e integrale del pensiero e della vita che costruisce lo specifico della cultura». Gliela diamo la lode questa volta?