Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  settembre 23 Lunedì calendario

Biografia di Riccardo Illy

Riccardo Illy, nato a Trieste il 24 settembre 1955 (69 anni). Imprenditore. Politico. Padrone della Illy, la società di Trieste specializzata nella produzione di caffè. Entrato nell’azienda di famiglia nel 1977, cominciò con l’occuparsi di vendite e marketing: divenne direttore commerciale nella seconda metà degli anni 80, amministratore delegato nel 1992. «Uomo senza partito, “indipendente di centrosinistra”» (Francesco Verderami), è stato sindaco di Trieste (1993-2001), deputato dell’Ulivo (2001-2003: «gli anni più noiosi della mia vita»), quindi presidente della regione Friuli – Venezia Giulia (2003-2008). Ricandidato alla regione nel 2008 e sconfitto da Renzo Tondo, albergatore di Tolmezzo, del Pdl, se ne andò senza rilasciare dichiarazioni e tornò in azienda • «Scritto in Arial, il carattere più banale del pc, il cognome Illy assomiglia a un triplice muro, dal quale l’ultima lettera tenta di sgusciare via. Riccardo Illy incarna quella ipsilon finale. A 18 anni si fece assumere come facchino da una cooperativa. A 19 se ne andò di casa, senza dire nulla ai suoi, per sposarsi in jeans e scarpe da tennis con Rossana Bettini, che dopo quasi mezzo secolo resta sua moglie. Da sindaco si sottrasse alla scorta che il prefetto di Trieste voleva imporgli e continuò a girare in moto, nonostante l’ordigno zeppo di chiodi esploso davanti alla sua casa: “Però circolavo armato”» [Stefano Lorenzetto, Cds 17/7/2023] • Dal 2016 ha lasciato ogni incarico dirigenziale in Illycaffè, che ora vede al comando il fratello Andrea, per dedicarsi al Polo del Gusto, la holding familiare dei prodotti di nicchia: Domori (cioccolato), Dammann Frères (tè), Pintaudi (biscotti), Achillea (succhi e confetture bio), Agrimontana (frutta conservata) • Oggi vive in una villa moderna ed ecosostenibile («green come l’azienda») sull’altopiano carsico sopra il Castello di Miramare, zona Prosecco • La mattina, appena sveglio, beve un tè invece del caffè • È uno dei pochi dirigenti d’azienda a non portare la cravatta. «Nessuno mi ha mai spiegato la sua utilità» • Illy, lei è sfuggente ma rigoroso. «Merito di mia madre Anna, convertitasi al valdismo: reputava il cattolicesimo poco rigido. Mi fece battezzare in chiesa solo per non arrecare un dispiacere al nonno Francesco, fervente cattolico, che stava morendo di tumore». Questo che cosa comportò? «I valdesi non hanno la confessione. Quindi è meglio non peccare» [Lorenzetto, cit.].
Titoli di testa Frase preferita: «Piuttosto che niente, meglio piuttosto».
Vita Terzo di quattro figli. Prima di lui: Francesco, classe 1953, fotografo. Dopo di lui: Anna, classe 1958; Andrea, classe 1964, ora presidente dell’azienda. Sono la terza generazione della famiglia Illy • «Fu mio nonno a fondare l’azienda e a inventare la pressurizzazione. Poi mio padre, uno scienziato, l’aveva ingrandita. Io, dopo alcuni corsi alla Bocconi, introdussi il marketing. E convinsi a pagare più caro il nostro caffè semplicemente perché era più buono» • Il nonno, Illy Ferencz – classe 1892, ungherese, soldato di Cecco Beppe di stanza a Trieste – innamoratosi di una ragazza triestina, maestra di pianoforte, dopo la Grande guerra aveva deciso di rimanere in città e si era cambiato nome in Francesco. Nel 1933, insieme a un socio, aveva fondato l’Industria Caffè e Cioccolato Illy & Hausbrandt. Nel 1934 illycaffé ottiene il brevetto per il sistema della pressurizzazione, il caffè può dunque essere esportato in tutto il mondo. Nel 1935 inventa la Illetta, progenitrice delle moderne macchine espresso, pensata per separare riscaldamento e pressione dell’acqua • Il padre, Ernesto, classe 1925, laureato in chimica, entra in azienda alla fine degli anni ’40. Crea un laboratorio chimico interno. Mette in commercio barattoli più piccoli, di caffè già macinato, per il consumo a casa, trovata che permette all’azienda di espandersi ancora di più • La sua famiglia non ebbe mai a che fare con i titini? «Evitammo le foibe, per fortuna. Però il nonno aveva un’azienda agricola in Istria, vicino a Buie, che fu requisita dopo la guerra dal governo socialista jugoslavo: essendo un imprenditore, era considerato nemico del popolo» [Lorenzetto, cit.] • «In casa si parlava italiano e tedesco. Per farmi imparare il francese, a 16 anni mio padre Ernesto m’incentivò a tradurre in italiano L’agressivité détournée di Henri Laborit». L’autore dell’Elogio della fuga, guarda caso. «Ci ricavai i soldi per passare dalla Vespa 50 al Ktm 125» [ibid.] • «Dopo la maturità scientifica mi iscrissi a Fisica, ma di restare a casa non mi andava: non c’erano regole chiare, condivise. Conobbi Rossana a febbraio del ’75, ci sposammo due mesi dopo, tra lo sconcerto dei miei. Tutti dicevano: non durerà. Cominciai a lavorare dove capitava. Entrai in una cooperativa di facchini. Presi la patente C per fare l’autista delle consegne. Mio padre mi offrì di entrare in azienda, ma gli incarichi che mi proponeva non mi interessavano e così il mio incontro col caffè avvenne in modo diverso. Un altro padre, quello del mio compagno di scuola Ernesto Lichtenstein, importava caffè verde dall’Africa, dall’America. Mi incaricò di organizzare il suo laboratorio, dove venivano classificati i campioni di prodotto. Mi insegnò a fare le prime degustazioni, ad esercitare i miei sensi al gusto del caffè. Nel frattempo, diventato, dopo l’esperienza agonistica, maestro di sci, passai l’intero inverno a Piancavallo: guadagnai in quattro mesi più di quanto prendevo in un anno nell’azienda del mio compagno di scuola. Credevo di non dover fare il militare, perché ero sposato. Invece, arrivò la cartolina. L’ufficiale a cui mi rivolsi per spiegare le mie ragioni per ottenere l’esenzione, saputo che mio suocero era dirigente ospedaliero, mi disse: sua moglie la manterrà il padre. Mi rivolsi al mio, per chiedergli se potesse aiutarmi. Per tutta risposta, papà, burbero e severo come al solito, replicò: vai, vai a fare il soldato, che ti farà bene. Da un giorno all’altro, il direttore commerciale della nostra azienda se ne andò e, finalmente, mio padre mi offrì un lavoro nel settore per cui mi sentivo portato: la vendita e il marketing. Naturalmente cominciai dall’ultimo gradino: seguivo i lavori dei capi d’area che, allora, si chiamavano ispettori alle vendite. Non venivo pagato dall’azienda: papà mi dava uno stipendio da fame, per sopravvivere. La mia fortuna fu quella di studiare e, contemporaneamente, poter mettere subito in pratica quello che imparavo. Lasciai Fisica e mi iscrissi a Economia. Cominciai a seguire corsi di formazione in varie università, finché un professore di Parma, Carlo Carli, costituì la consulta del marketing. Aveva capito che gli studenti dovevano presto avere un confronto con il mondo dell’impresa. Lì incontrai tanti manager e con gli allievi ero costretto a razionalizzare quello che facevo in azienda. La nostra società crebbe e crebbi anch’io, finché divenni amministratore delegato» (da un’intervista di Luigi La Spina) • Perché scese in politica? «Me lo chiesero cittadini, amici, industriali, scienziati. Arrivarono a me per disperazione, dopo che Giacomo Borruso, rettore dell’università, aveva rifiutato la candidatura a sindaco di Trieste». La famosa «società civile». «Esatto. Vado orgoglioso di aver portato in consiglio comunale nel 1993 l’astrofisica Margherita Hack e Paolo Budinich, cui Trieste deve il titolo di Città della Scienza». Ma prese tante pernacchie. «Quella era la specialità dell’indipendentista Giorgio Marchesich, centralinista del Piccolo, il quotidiano locale. Chiudeva i suoi interventi con il versaccio. Siccome aveva il record delle preferenze, divenne presidente dei consiglieri. “Soprintendo i lavori contro la mia volontà”, esordì. Molto simpatico» [Lorenzetto, cit.] • «Bella scommessa, quella vinta dal Riccardo per almeno 15 anni. Si trattava di governare coalizioni col peccato originale, quasi lombrosiano, di annoverare “comunisti” al loro interno, partendo da idee e progetti che non avrebbero sfigurato in un “book” della Confindustria. E c’è riuscito, imponendo per lunghi periodi il pensiero unico. Il suo. Perché una cosa è stata chiara a tutti fin da quel lontano 1993: Illy non si comanda o suggestiona, al massimo si asseconda. Perché, ricco del suo, non ha bisogno della politica. Perché, da sempre, ha più certezze che dubbi. Perché tollera a stento le manfrine, le tattiche, le dilazioni. E meno ancora i politici professionali, quelli che senza un incarico devono pensare a trovarsi un lavoro vero. Chissà se questi pensieri avevano attraversato la mente della delegazione del centrosinistra che sul finire del 1992 bussò sommessamente alla sua porta. Il nome Illy non aveva ancora l’enorme, globale impatto d’immagine di adesso ma costituiva già una presenza industriale rilevante in Italia e in Europa. Si trattava di compiere una missione impossibile: scalzare dal Comune la coalizione destrorsa che, con rari intervalli, governava la città da almeno 15 anni. I gossip dell’epoca dicono che tra l’altro la “gauche” era arrivata buona seconda nella proposta ma Illy, che non si è mai considerato uomo di destra, preferì glissare, con gran scorno soprattutto di Roberto Menia di An, che gliela giurò. Alla cloche si mise dunque il pilota Giulio Staffieri che, tra discorsi alle pantere grigie dei tanti salotti e feste patriottarde dava per scontato il perpetrarsi della gerontocrazia listaiola. La domenica delle elezioni comunali del ’93 rimase con la forchetta a mezz’aria mentre mangiava un’orata, in un servizio televisivo che è rimasto un “cult”. Sì, Illy ce l’aveva, gliel’aveva fatta. E varò subito una giunta giovane, prevalentemente fatta di amici e tecnici dai quali pretendeva molto, ben coadiuvato dal suo Richelieu, il rimpianto Roberto Damiani. Con la coalizione non furono rose e fiori. Illy decideva e non accettava né mediazioni né tantomeno critiche. In questo gruppo costituito con la sua lista civica, popolari e diessini, anticipando sia l’Ulivo che il Pd, l’ultima parola era sempre la sua ma i progetti, sfrondati dei tempi morti della politica, andavano avanti: il rifacimento di piazza Unità, condotto tra le proteste del popolo del “liston”, la riqualificazione di Cittavecchia, la galleria San Vito, l’area di Passeggio Sant’Andrea, il nuovo PalaTrieste e l’avvio della cittadella sportiva sono tutte realizzazioni di quegli anni. Ma anche le polemiche con i diessini che, quando votò contro la proposta di un registro per le coppie di fatto dichiararono, con Fabio Omero, “di non essersi aspettato un atteggiamento simile da un valdese”. In realtà più che altro è un calvinista, duro con gli altri ma anche con sé stesso. Dotato di una memoria eccezionale, si è dimostrato l’antipolitico per eccellenza, come quando, scavalcando i patetici equilibrismi linguistici della nostra classe politica media, lasciò senza parole un boss della Pittway improvvisando sul momento un discorso complessissimo in inglese perfetto. O quando, neoeletto presidente della Regione, entrò nel palazzo della giunta con la sua moto Bmw, poi usata anche per la prima missione all’estero, a Salisburgo. Un modo per dire: non sono come gli altri. L’approdo a Roma, dopo due mandati in Comune, fu quasi un atto naturale, nel 2001. Illy era ormai considerato l’Asso pigliatutto, il Re Mida delle urne e per questo la coalizione accettò anche che la scelta del suo successore la facesse direttamente lui, indicando lo spedizioniere Federico Pacorini. Un errore che riconsegnò la città alla destra e incrinò in maniera irreparabile il rapporto con Damiani, che si considerava suo successore naturale. Nell’Urbe l’approccio non fu entusiastico, la quotidianità banale per uno che, abituato a dirigere, si trovò a svolgere lo scomodo ruolo dell’opposizione. Ma le vacanze romane terminarono presto, con suo grande sollievo, pare. C’era una nuova missione, riconquistare la Regione. E ci riuscì anche stavolta, battendo il territorio con precisione e determinazione chirurgica» [Il Piccolo, 19/4/2008].
Amori Rossana Bettini, la moglie, è giornalista enogastronomica. Una figlia, Daria, che fa la personal trainer.
Denari Da presidente della regione prendeva poco più di ottomila euro al mese.
Politica «La politica è un articolo che non tratto più. Ho dedicato alla comunità 15 anni, e ne avevo previsti quattro» [ad Alessandro Ferrucci, Fatto].
Politica/2 È contento di Elly Schlein? «No, credo che sia una iattura per il Pd, per il centrosinistra e pure per Giorgia Meloni, che ancora non lo sa». La sta avvertendo. Spieghi. «Al leader della maggioranza serve un’opposizione forte, non debole e frammentata, altrimenti si rafforzano i rivali interni. Schlein farà perdere molti voti al Pd. Trovo surreale che l’abbiano eletta i passanti. Il segretario giusto era Stefano Bonaccini». Quando Matteo Renzi perse il referendum, lei predisse che sarebbe risorto come l’araba fenice. Più che altro è diventato mezzo arabo. «Vero. Una delle mie previsioni sbagliate, non l’unica» [Lorenzetto, cit.].
Religione Cattolico o valdese? Non ha mai sciolto il dubbio. Oggi comunque non è praticante.
Curiosità Consuma yogurt scaduti • Maestro di sci • Istruttore di vela • Ha volato con il deltaplano, «lo sport più bello che abbia mai fatto» • Giornalista pubblicista • Grande ufficiale della Repubblica italiana • Console onorario della Repubblica francese a Trieste • Royal Warrant Holder della famiglia reale britannica. La Prestat, società produttrice di cioccolato con sede a Londra e controllata dalla Domori, è fornitrice ufficiale di Buckingham palace • Nella quarta generazione della famiglia gli Illy sono nove • Il nonno ungherese, Illy Ferencz, in realtà aveva ascendenze francesi, tanto è vero che nelle Ardennes esiste un paesino di nome Illy • La città da cui il nonno era partito per Trieste, Temesvár, alla caduta dell’impero austro-ungarico fu ceduta alla Romania e ora si chiama Timișoara • Il papà, Ernesto, è morto nel 2008 • La mamma, Anna Rossi Illy, classe 1931, è ancora viva. «Siamo tre fratelli, una sorella e una mamma» • È stato il fratello Francesco, quello che fa il fotografo, a scegliere gli artisti delle famose tazzine • Lavora in uno studio austero, la moglie per scherzare lo chiama «la celletta francescana» • «I miei due anni alla Camera? Due anni sprecati a schiacciare bottoni. Il deputato parla mentre un rappresentante del governo finge di ascoltarlo. Il dibattito parlamentare va abolito. È solo una farsa» • «Non basta essere grandi imprenditori per diventare bravi politici. Come dimostra la parabola di un imprenditore milanese...» [Paolo Griseri Rep 29/9/2014] • Gli imprenditori non devono fare solo gli imprenditori?«No. Troppo facile criticare e basta». Quindi che differenza c’era fra lei e Berlusconi? «Io agivo per spirito di servizio, lui perché si sentiva minacciato dai comunisti. Lo disse nel 1993, invitandomi a un incontro il cui scopo mi fu chiaro solo l’anno seguente». Ma lei non era comunista? «Mi considero un liberale». Come il Cavaliere. «Per me era un oligopolista, benché abbia avuto il merito di circondarsi di gente valida. Penso ad Antonio Martino, per esempio» [Lorenzetto, cit.] • «I triestini sono piuttosto smaliziati, per via delle tante convulsioni della storia che hanno subito» • «Trieste è una città meravigliosa. Riconosciamolo: a diventare italiana ci ha perso. Cent’anni fa i triestini erano 234 mila, ed erano i più ricchi dell’Impero; oggi sono 33 mila in meno, e sono i più vecchi del nostro Paese (insieme con i genovesi). La città è stata inventata dagli austriaci, e dimenticata dagli italiani. Arrivarci in treno è un’avventura; pure i voli sono pochi, e l’aeroporto lontano. Quando Riccardo Illy fu eletto sindaco, per prima cosa andò a Roma al ministero dell’Industria per salvare la ferriera, che era lì da quasi due secoli. Il funzionario lo guardò con stupore e gli disse: “Ma la ferriera di Trieste non è già chiusa?”. “Ha 1.500 operai” rispose Illy» [Aldo Cazzullo, Cds] • Favorevole alla Via della Seta con approdo a Trieste? «Vista la deriva totalitarista di Xi Jinping, che ha cambiato la costituzione cinese per garantirsi il terzo mandato, oggi sarei contrario». Provi a definire la sua città. «Integratrice di sistemi. La vedeva così il ministro Tiziano Treu e io ero d’accordo». Un pregio di Trieste? «La qualità della vita elevatissima, per natura, clima, cultura, organizzazione. Supera la media nazionale». Un difetto? «Il rovescio della medaglia. Conosco dirigenti che hanno rifiutato importanti promozioni per non doversi trasferire in città meno edoniste». Ricorda la Bologna bollata dal cardinale Giacomo Biffi come «sazia e disperata». «Trieste è sazia ma non disperata» [Lorenzetto, cit.].
Titoli di coda «Piuttosto che niente, meglio piuttosto», è così? «Era la mia frase preferita. Ma ora ne ho adottata un’altra. L’ho rubata a Vittorio Vannucchi, bolognese, che era mio direttore vendite in Illycaffè ma fu anche arbitro di serie A. Il 13 aprile 1975, durante Inter-Fiorentina, espulse dal campo Giacinto Facchetti. Fu l’unico cartellino rosso in 634 partite del difensore nerazzurro». Sentiamola. «Meglio arrossire prima, che impallidire dopo» [Lorenzetto, cit.].