27 settembre 2024
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Biografia di Saverio Costanzo
Saverio Costanzo, nato a Roma il 28 settembre 1975 (49 anni). Regista. Figlio del conduttore Maurizio Costanzo e di Flaminia Morandi.
Titoli di testa «Io sento me stesso come un limite».
Vita «Da ragazzo facevo una vita normale. Stavo in una casa di novanta metri quadrati, con mia mamma e mia sorella. Solo a 14 anni ho realizzato che mio padre era ricco». Qual è il primo ricordo che ha di lui? «Lo rivedo nella sua camera da letto, affacciata su una chiostrina, con una coperta anni 70, una trapunta bianca con i quadrati neri. Papà non ha mai dormito con mamma, come non credo abbia mai dormito con nessuna delle sue mogli. Stavamo in centro, in via dei Banchi Nuovi, al secondo piano. Ma lui se ne è andato di casa molto presto, quasi subito». Com’erano i vostri rapporti? «Volevo molto bene a papà. Ma avevo una madre forte e molto presente, che non ci ha mai fatto sentire la sua mancanza. Poi certo abbiamo avuto i nostri conflitti, come sempre tra il padre e il figlio maschio. Devo molto a Maria. Fu lei a riavvicinarci». Maria De Filippi? «Andavano da Mességué perché lui doveva sempre dimagrire. Una volta Maria gli disse: portiamo anche tuo figlio. Allora avevo tredici anni, ed ero pure io un po’ grassoccio… Lui all’inizio non voleva: “ma no, che palle!”. Finì che ci divertimmo tantissimo, sembravamo Sordi e Verdone nel film “In viaggio con papà”. Ci era toccata la camera insieme, un incubo. Se mi svegliavo (affamato) nel cuore della notte russava talmente che non riuscivo più a prendere sonno. All’inizio mi pareva uno sconosciuto. Poi mi resi conto che papà era un uomo di un umorismo straordinario. E così, complice una certa sorniona ironia tipica dei romani che condividiamo, ci siamo ammazzati dalle risate» […] «Avevo quattordici anni, c’era già stata la gita da Mességué. Papà mi telefona e mi chiede: “Ce l’hai una giacca? No? Compratela. Passo a prenderti tra due giorni”. Prendemmo l’aereo privato che per quel tratto divideva con Valentino, lo stilista». C’era anche Valentino? «No, c’erano i suoi tre carlini, con il domestico filippino. Arrivammo a Milano e andammo ad Arcore da Berlusconi. Fu gentilissimo, mi portò in giro per un’ora a vedere la villa, mi riempì di gagliardetti del Milan: era il 1989, l’anno della sua prima Champions. Poi ci mettemmo a tavola, Berlusconi indossava una tuta di velluto. Papà era insolitamente teso. A un tratto un omone con i pantaloni alla zuava e la piccozza bussò alla vetrata: era Craxi con sua moglie Anna, reduce da una passeggiata nel parco di Arcore» [ad Aldo Cazzullo, Cds] • Com’era suo nonno paterno? «Si chiamava Ugo, era un tipo molto simpatico: anticlericale, la madre volle che papà diventasse scout, e lui gli faceva trovare biglietti con la scritta: “Prete!”. Mio padre era legatissimo a lui, più ancora che a sua mamma, che pure gli aveva trasmesso la passione per il teatro e per l’arte. Rimpiangeva di averlo perso così presto. Una volta mi disse: “Ogni sera, prima di entrare in scena, penso al mio papà”» [ibid.] • Laurea in Sociologia delle comunicazioni all’Università La Sapienza di Roma nel 2001, inizi come conduttore radiofonico • «Avevo imposto a mio padre di non parlare di me, e io facevo la stessa cosa. La distanza che si vedeva da fuori rifletteva solo una forma di pudicizia che io ho nel mostrare gli affetti personali» [a Fulvia Caprara, Sta] • «Non ho quasi foto con lui» [Cazzullo, cit] • Nel 1997 fece due spot contro la droga per Fabrica (Benetton) e scrisse la sceneggiatura del corto Il Numero e del telefilm Una famiglia per caso, diretto dalla sorella Camilla e prodotto da Raiuno. Nel 1998 lavorò a New York, prima come operatore per la casa di produzione Gvg Usa, poi come aiuto regista dello svizzero Reiro Kaduff in The Business of Death • «E girai un documentario a Brooklyn, sugli italoamericani del Caffè Mille Luci. C’erano il sedicente avvocato, l’idraulico, l’autista di scuolabus, Alfonso, che mi ammoniva di non andare mai a Manhattan, “perché so’ tutti froci”. Un giorno venne Anthony Genovese, il mafioso, che mi consentì di continuare a girare, a patto di non riprenderlo mai. Ero diventato uno di loro, fino a quando non fui scoperto». Come accadde? «Come avventori del bar fummo invitati a Rai International a vedere la partita della Roma, tutti con la sciarpa giallorossa, come pubblico della trasmissione che conduceva Ilaria D’Amico, che per gli italiani all’estero era come la Carrà. La conoscevo e così le chiesi di far finta di nulla, ma lei non si trattenne: “Ciao Saverio!”. Così scoprirono chi ero, e chi era mio padre. E si ruppe il rapporto di fiducia. Non ero più uno di loro». Poi a New York venne anche lui, Maurizio Costanzo. «Nel 2002, con Mentana, a fare una trasmissione sull’11 settembre per Canale 5. Anche lì ci divertimmo. A un certo punto qualcuno propose: mandiamo Saverio a girare questi contributi. Ma mio padre non rispose né sì né no. Come a dire: non te la regalo la fiducia. E io pensai: ah sì? Neanch’io la regalo a te» [Cazzullo, cit.] • Due anni dopo lei vinse il festival di Locarno con la sua opera prima, Private. Un film quasi profetico: la storia di una famiglia di Gaza, costretta a convivere con i soldati israeliani che occupano la sua casa. «Papà commentò: “È come se il proprietario di un teatrino di rivista scoprisse che suo figlio è Ibsen”» [Cazzullo, cit.] • «Hanno sbagliato sala» (Maurizio Costanzo alla figlia Camilla che lo chiamava da Locarno per annunciargli che il pubblico era tutto in piedi ad applaudire il film del figlio Saverio) • Ha una madre teologa che l’ha aiutata a scrivere In memoria di me, ambientato in un convento. «L’apporto teorico e teologico della sceneggiatura è tutto suo. E forse io non ne ho usato appieno la forza. Per preparare il film, avevo partecipato agli esercizi spirituali di Sant’Ignazio che lei stava conducendo e ne ero rimasto molto colpito. Ma fare quei percorsi in modo strumentale, pensando a uno scopo specifico, non dà la profondità necessaria. Anche se aiuta a trovare il concreto dentro l’immateriale» [a Stefania Rossini, l’Espresso] • Nel 2007 portò al Festival di Berlino In memoria di me, film-scandalo nato dal romanzo che Furio Monicelli pubblicò nel 1960 come Il gesuita perfetto e che a fine anni Novanta riuscì con il titolo Lacrime impure. Maria Pia Fusco: «È il bacio di un giovane sulle labbra di un istruttore prima di uscire nel mondo esterno che potrebbe accendere la polemica». Il padre gesuita Federico Lombardi reagì dicendo che senza fede non si poteva parlare di fede. Costanzo: «Se il film non piacerà al cardinal Ruini non mi stupirò, ne sarò perfino orgoglioso: significa che sarò riuscito ad innescare una riflessione». Il film incassò «le stroncature della stampa tedesca e l’accoglienza perplessa di Variety. (...) Der Spiegel sull’opera di Costanzo è categorico: “È sempre italiano il peggior film in concorso”» (Fulvia Caprara) [Sta 13/2/2007]. Nello stesso anno fu autore di Auschwitz 2006, film-documento sul viaggio di 250 giovani delle scuole superiori di Roma nella località più sinistramente nota della storia del Novecento • Lei è credente? «Guardi, mica lo so. Mi sembra tutto talmente in divenire che non posso né affermarlo né negarlo» [Rossini, cit.] • Successo di pubblico con la versione italiana di In Treatment (Sky Cinema, da aprile 2013), «serie raffinata ideata in Israele, diventata caso in America ed esplosa in Italia generando un terremoto nel genere, con gruppi d’ascolto, interventi, Twitter, febbre collettiva» [Stefania Berbenni, Panorama]. Nel 2014 la seconda stagione. Il suo cinema però è spesso spiazzante, difficile da sopportare. «Me lo auguro. La mala educazione cinematografica induce a vedere ciò che già si conosce, per rassicurarsi o per cercare le differenze. Io tento di creare l’imprevedibile e mettere a disagio lo spettatore. Non lo faccio con la ragione, ma per un istinto che mi fa scegliere la tragedia rispetto all’epica. I miei personaggi sono sempre tesi verso l’alto e di conseguenza verso il basso. Non sanno camminare orizzontalmente» [a Stefania Rossini, l’Espresso]. Lei ha portato al cinema e in tv i due romanzi italiani di maggior successo degli ultimi quindici anni, La solitudine dei numeri primi e L’amica geniale. «Il libro di Paolo Giordano ha venduto due milioni di copie; eppure non ho fatto il film che i lettori si aspettavano e volevano. C’era un combattimento dentro di me, un braccio di ferro tra “la nicchia” e lo spirito nazionalpopolare che invece mio padre incarnava senza complessi. Solo con il tempo ho fatto pace con questa cosa». Sul set lei incontrò la sua compagna, Alba Rohrwacher. «E pensare che detestavo la campagna, il miele, lo dicevo proprio: che noia questa storia della Rohrwacher, la campagna, il miele. E poi invece non solo ho imparato ad amare la campagna e il miele, ma soprattutto lei». Ed Elena Ferrante, o come si chiama davvero, l’ha mai incontrata? «No. È rimasta un fantasma. Ho un pacco alto così di mail che ci siamo scambiati. È stata lei a scegliermi come regista per la serie tratta dai suoi romanzi». Perché? «Non lo so. Forse perché per me l’autorità è femmina. Ho imparato moltissimo dalla cultura femminista. Sono cresciuto in un ambiente matriarcale, dove quello sbagliato, in quanto maschio, ero io» [Cazzullo, cit.] • Tra i due gira anche Hungry Hearts. Dopo Le conseguenze dell’amore, ecco Le conseguenze del mangiare: nel suo film, il cibo è pessimo in tutte le sue forme. «Be’, sì: nella scena specifica, trattasi di merda. Ma è anche divertente. E in effetti c’è una coerenza fra il prologo e l’epilogo, ma non è studiata, costruita. Spesso questo film mi faceva paura. E a volte ridere» [a Paola Zanuttini, minimaetmoralia.it] • Anche nel suo nuovo film, Finalmente l’alba, la protagonista è una giovane donna, Mimosa. Si ritrova nello stesso ambiente costato la vita a una coetanea con il sogno del cinema, Wilma Montesi, ma ne esce viva e più forte. «Il caso Montesi fu la perdita dell’innocenza dell’Italia del dopoguerra. Per me è anche una suggestione felliniana: la ragazza che Mastroianni incontra sulla spiaggia di Fregene nella Dolce Vita è Wilma. Lei è già morta, infatti grida e lui risponde: non ti sento. Da allora molto è cambiato, ma l’Italia è ancora un Paese misogino. Il film è un invito al coraggio. Anche al coraggio di ritrovare la parte femminile che è in ognuno di noi». Nel film Alida Valli è Alba Rohrwacher, mentre la diva americana è interpretata da Lily James: seducente ma fredda. «Le dive degli anni 50 erano costrette – per essere libere, per avere potere – a sedurre, a compiacere sempre le aspettative del maschio. Era il loro ruolo. L’archetipo è Marilyn Monroe. Un’altra che, come Wilma Montesi, non si è salvata» [Cazzullo, cit.] • Finalmente l’alba è dedicato a suo padre Maurizio: «Sono molto stupito del fatto che in tanti mi abbiano chiesto la ragione della scelta. A un figlio viene a mancare il padre, la cosa più naturale del mondo era dedicargli il film. Per me è stato un atto dovuto». Come avete detto addio a Maurizio Costanzo? «C’eravamo tutti: Maria, mia sorella Camilla e mio fratello Gabriele. Sono stato fortunato: non avevo film da girare, ho potuto stargli accanto sino alla fine, e sono orgoglioso di questo. Papà è sempre rimasto lucido. Era stato molto male già nel 2013, ma all’epoca dovevo lavorare, avevo interrotto una produzione che doveva ricominciare. Lui mi disse: non partire, resta qui con me. Gli risposi: tu cosa faresti al posto mio?». Come finì? «Ancora una volta fu Maria a risolvere: “Vai pure Saverio, tuo padre è troppo intelligente per morire adesso”». Cosa ricorda del funerale? «La lettera meravigliosa che lesse mia sorella. Camilla immaginava che papà fosse lì e dicesse: “Ma ve rendete conto? Pe’ me, tutto ’sto casino?”». Farebbe un film su di lui? «Il copione c’è, il titolo pure: Show. Ma manca l’interprete. Ci vorrebbe un attore dalla grande ironia sorniona. Forse solo un Tognazzi potrebbe riportarlo in vita». In tv guarda Chi l’ha visto: «È il più grosso film dell’orrore che ci sia, straordinariamente inquietante».
Amori Con la sua ex compagna, la iena Sabrina Nobile, ha avuto due figli. Ora sta insieme ad Alba Rohrwacher.
Titoli di coda «La vita è un tentativo di curare le ferite di essere nati» [a Berbenni, cit.].