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 2024  settembre 28 Sabato calendario

Biografia di Nino Migliori

Nino Migliori, nato a Bologna il 29 settembre 1926 (98 anni). Fotografo. «Una foto non è mai la rappresentazione della realtà. È la sua interpretazione» (a Elvira Serra) • «Mio padre era pontiere, costruiva ponti per le ferrovie. Era sempre via, tornava a casa il sabato, andava in osteria la sera e restava ubriaco fino alla domenica. Poi il lunedì ripartiva. Ma io ero molto legato a mia madre». «Che infanzia ha vissuto, che bambino è stato? “Facevo parte della banda di via Saragozza 71. Allora le case pullulavano di bambini e ogni edificio era un fortino da difendere. Un’infanzia povera, ma ricca di solidarietà, competizione, amicizie, immaginazione”» (Fernando Pellerano). «Un ricordo della guerra? “Ero un ragazzo di 15-16 anni che aveva paura dei bombardamenti e dei nazisti. Stavo sempre nascosto. Una volta, ero nella casa di un contadino che aveva un podere piccolissimo e mi ero rifugiato nella buca dove venivano conservate le cose da mangiare. La buca era coperta da un sasso e sentivo i tedeschi camminarmi sopra, con il terrore di farmi scoprire con uno starnuto, perché ai tempi soffrivo, e soffro ancora, di asma”» (Serra). «E la fotografia? “Una passione adolescenziale. Avevo una macchinetta e partecipai a un concorso parrocchiale per la più bella foto. Inaspettatamente vinsi il primo premio. In palio c’era una macchina fotografica professionale. Cominciai così a fotografare, con regolarità. Allora, parlo di prima della guerra, c’erano a Bologna diversi circoli amatoriali di fotografia. Mi iscrissi a uno di essi. Nel tempo libero andavo in giro a fotografare. Ero molto estetizzante”. Cosa vuoi dire? “Erano foto belle, almeno per il mio canone, ma senza un pensiero dietro. Fu dopo la guerra che cominciai a capire che la fotografia è un’arte che non deve cercare necessariamente il bello”. […] Il tuo punto di origine è il 1948. “Sono nato nel 1926. Nel ’48 sono rinato come fotografo”. Prima di allora cosa facevi? “Ho lavorato a lungo nell’azienda Fabbri – quella delle amarene –: ho iniziato come semplice impiegato, fino a ricoprire incarichi dirigenziali. A differenza dei miei, che vedevano nel figlio unico la realizzazione dei loro sogni, non ero entusiasta”» (Antonio Gnoli). «Fin dal 1948, quando ha iniziato a usare la macchina fotografica, Migliori non ha fatto altro che sperimentare: dalle astrazioni dell’“off camera” alla manipolazione delle polaroid, dalle sovraimpressioni al fotomontaggio, dalle bruciature alle ossidazioni» (Lauretta Colonnelli). La prima fase della sua produzione fotografica nel dopoguerra è generalmente definita neorealista. «Migliori ritrae le genti del Sud, quelle dell’Emilia e del delta del Po, la loro povertà di sopravvissuti a una guerra finita da poco. Ma questi ritratti non sono soltanto realisti: l’artista riesce a infondervi la sua visione del mondo ed è una visione ironica e non priva di gioia, che si confonde con la gioia di un popolo finalmente uscito dall’incubo, felice di essere vivo. “Avevo 18 anni quando è finita la guerra”, ricorda. “Dopo aver vissuto per tanto tempo nascosti in un buco, con la paura delle bombe e dei rastrellamenti, di non avere l’acqua e il cibo, improvvisamente si ritornava alla luce ed era tutto meraviglioso, perfino un pezzo di muro, un fiore selvatico, un raggio di sole, un vestito nuovo. Cominciai ad andare in giro con la macchina fotografica e a riprendere tutto quello che vedevo. Scattavo ogni volta che una situazione mi faceva sorridere”. Documenta così l’immagine di un Paese illuminato dalla speranza. Sorride il prete che brinda con il tovagliolo appeso sull’abito talare, sorride il fotografo di paese che riprende la piccola comunicanda, sorridono meste e serene le vecchiette sedute in conversazione sui gradini di pietra, e i bambini che giocano in mezzo alla strada» (Colonnelli). «Risale a quel periodo la famosa foto Il tuffatore? “La scattai nel 1951. Mi trovavo a Rimini. Camminando lungo il molo notai un gruppo di ragazzetti in costume che si tuffavano. Una corsetta e giù in acqua. Fu istintivo. Puntai l’obiettivo aspettando lo slancio e poi il volo. Fu un solo scatto. Un colpo di fortuna. Fissai quel giovane corpo perfettamente in linea con la superficie del mare. Me ne resi conto solo allo sviluppo. La cosa incredibile è che l’inquadratura era perfettamente equidistante dai due lati della pellicola. Neanche dopo mille tentativi avrei potuto realizzare tanta perfezione”» (Gnoli). «Quello fermato nel Tuffatore è un vero e proprio sentimento del tempo: “L’Italia dopo la guerra, l’Italia che ricominciava a vivere, l’Italia dei giovani che volevano conoscere il mondo”» (Stefano Bucci). «Quella foto […] ti rese famoso. “Ma non ne feci niente. Anzi, me ne dimenticai. Apparve su qualche rivista specializzata e suscitò l’interesse di alcune gallerie. Tanto è vero che, qualche anno dopo, venne a trovarmi un famoso gallerista americano, Keith de Lellis: volle vedere il mio lavoro e intendeva esporre Il tuffatore nella sua galleria newyorkese. Gli dissi che l’offerta mi riempiva di orgoglio ma che quella foto era un unicum e come tale non aveva senso esporla”. Perché? Dopotutto è quello che il mondo dell’arte cerca. “È vero, ma non volevo essere identificato con quella foto lì. Il mio lavoro evolveva in più direzioni. E intendevo restare libero. In quel periodo, parlo degli anni Sessanta, ero stato invitato a far parte del gruppo di fotografi della Magnum che lavorava con Cartier-Bresson. Ma avrei dovuto abbandonare tutto quello che fin lì avevo fatto. Lasciarmi Bologna alle spalle. Preferii restare dov’ero. Difesi la mia libertà, che poi è il bene per me più prezioso. Intendo prezioso per il mio lavoro”» (Gnoli). «In altre immagini si percepisce la sua frequentazione di pittori come Giorgio Morandi, Emilio Vedova e Tancredi Parmeggiani. “Mi trascinarono a casa di Peggy Guggenheim a Venezia. La prima volta che vidi Peggy mi colpì la sua bruttezza, il viso duro. Poi la sua intelligenza”, ricorda ridendo. La ritrasse nell’intimità del palazzo veneziano, in una sequenza di foto rimaste famose» (Colonnelli). «È entrata nella leggenda la sua nottata a casa di Peggy Guggenheim a Venezia con Emilio Vedova e Tancredi Parmeggiani per ammirare un Pollock. “Eravamo ubriachi. Lei lo aveva scartato davanti a noi. Lo guardavamo, andavamo a bere, tornavamo a guardarlo. Mi emozionava il fatto fisico di avere così vicino a me il quadro di Pollock: potevo toccarlo, era vero”» (Serra). «“Quel suo grande quadro, […] nel groviglio di linee casuali e colori, sembrava raccontare il caos come un pugno sferrato in piena faccia”. Vuoi dire che ti turbò? “L’arte quando è grande provoca turbamento. Quanto a me, cercai di sperimentare le tecniche del dripping applicandole alla fotografia. […] Non avrei realizzato le mie ‘ossidazioni’ senza il dripping dell’uomo che inventò l’action painting”. Il tuo lavoro di fotografo è importante anche per la serie che hai dedicato ai muri. “Ho fotografato muri per trent’anni. Prevalentemente a Bologna. Attraverso i muri ho cercato di leggere la vitalità di una città. I muri ci parlavano già molto prima che imperversasse la street art. Più che i lampioni, i muri rivelano la luce opaca di una città”. A proposito di luce e lampioni, sei famoso anche per l’utilizzo nel tuo lavoro della candela. “Fa parte, come al solito, della mia volontà di sperimentazione. Dall’Università di Parma mi fu chiesto di fotografare il complesso scultoreo dello Zooforo del Battistero e guardando quei capolavori mi sono chiesto come facevano nel Medioevo a vedere queste formelle quando il sole non c’era. È nata così l’idea di fotografare alcune sculture antiche alla semplice luce delle candele. È stato complicatissimo e ha richiesto uno sforzo fisico notevole”» (Gnoli). «Migliori porta avanti la sua ricerca sulla sperimentazione, indagando la fotografia off-camera nelle sue varie declinazioni. Quindi non solo fotografia come manifestazione del reale, ma possibilità di creare immagini con la fantasia, il gesto, utilizzando comunque gli strumenti fotografici e inventando nuove tecniche, come l’ossidazione fotografica o il polarigramma. Negli anni Novanta pone l’attenzione sulla successione visiva e l’accostamento fotografico. In Binario morto (1996) fotografa un vero binario abbandonato, utilizzato per il lavaggio delle carrozze, sul quale si accumulano residui catramosi. La successione fotografica che ne ricostruisce la vera porzione la rende un’opera installativa e scenografica. In Alfabeto immaginario (1995) un pezzo di plastica mosso dal vento viene fotografato in serie e stampato facendo un collage dei singoli fotogrammi. Il risultato visivo è l’accostamento di tracce e forme che simboleggiano una antica lingua perduta. […] Migliori ha sperimentato anche sulle polaroid (Trasfigurazioni del 1997, Strappi degli anni Ottanta), incidendo la superficie e separando la pellicola anteriore dal fondo. Attraverso il gesto e la pressione, egli ci restituisce l’idea stessa di fotografia, intesa come traccia del reale. […] Un lavoro giocoso e dissacrante è Polifanie (1983), in cui il ritratto del gallerista milanese Giorgio Marconi viene smembrato con una macchinetta tagliapasta e ricomposto successivamente assumendo nuove forme. Assistiamo a una scomposizione visiva sicuramente ironica, ma che in realtà cela un ragionamento molto più profondo sulla percezione dell’immagine. […] Questo carattere ironico […] si ritrova anche in Arabesque, lavoro più recente (2022-23) ma non meno divertente. Anche in questo caso viene utilizzata la tecnica del collage, già usata negli anni Settanta, prendendo in esame esibizioni dal vivo o frame televisivi non accostati per ordine temporale, ma mischiati a seconda del cromatismo» (Francesca Occhi). «Quanto spazio lasci all’ironia nei tuoi lavori? […] “In certi casi si utilizza l’ironia per sdrammatizzare, affrontando il problema in modo leggero, ma non per questo banalizzandolo, per esempio nel lavoro Make love not war del 1973, anno in cui si firma l’accordo di pace per porre fine alla guerra del Vietnam: le cinque fotografie che lo compongono rappresentano dei soldatini di plastica in assetto di guerra che stanno tentando di conquistare la ‘mèta’, avanzando lungo il corpo di una donna. Ovviamente il titolo riprende il famoso slogan hippy contro le guerre”» (Mauro Zanchi). «Oggi cosa le piace fotografare di più? “Le persone, gli stati d’animo. Questo non è cambiato dai tempi nei quali ritraevo la gente dell’Emilia, la gente del Nord, la gente del Sud”» (Serra). «La fotografia per lei è tutto. La sua pensione, però, non arriva da quello. “Vivo con una pensione di 2.400 euro al mese maturata facendo il dirigente industriale”. […] È ricco? “Di povertà”. Non ci credo. “Non ho mai cercato di sfruttare la fotografia, ne ho regalate migliaia. Gli workshop, li faccio gratis. La fotografia è come la parola: arricchirsi con la filosofia mi è fortemente antipatico”» (Serra) • Protagonista di due documentari di Elisabetta Sgarbi: Nino Migliori. Viaggio intorno alla mia stanza (2022) e Nino Migliori. La festa che rovescia il mondo per gioco (2023). «Il primo, come annuncia il titolo, è un racconto dell’arte di Migliori tutto ambientato nel suo studio. Il secondo nasce quando Elisabetta Sgarbi racconta a Migliori di essere stata chiamata a curare l’anniversario 150 del Carnevale di Viareggio: lui le dice che vuole assolutamente vederlo e lei risponde che va bene, lo porterà, a patto che lui si faccia riprendere mentre fa le sue foto ai carri» (Silvia Nucini) • Due figli (uno dei quali deceduto) dalla prima moglie; dal 2011 sposato in seconde nozze con Marina Truant, cui è legato dal 1978. «È stata sua moglie Marina a conquistarla. Con un fiore, giusto? “Sì, un garofano: un fiore civile, come dice lei”. Era una sua studentessa. “Vero. Insegnavo a Parma, chiamato da Arturo Quintavalle. Entro nell’aula e vedo arrivare una bellissima ragazza con un fiore in mano. Stupito, la guardo: lei si avvicina e me lo dà. Io sono quasi svenuto. Ero sposato. Dopo due anni, quando avevo sistemato la mia situazione privata, ci siamo messi insieme”» (Serra). «Ha fatto fatica a separarsi? “È stata dura, per l’opposizione di tutta la mia famiglia. I miei figli erano contrari, ma io ho deciso di andare avanti lo stesso. Con mio figlio Alessandro, che è morto 20 anni fa in un incidente stradale, le cose non si sono mai appianate. Invece con mia figlia Mara ho recuperato. Abbiamo un rapporto a distanza, ma pur sempre un rapporto. Che invece è bellissimo e sereno col figlio di Mara, mio nipote Alessandro”. […] Che cosa l’ha spinta ad andare contro tutti? “Il fatto che lei fosse un angelo. È una donna buona e gentile. Io senza di lei non camperei un giorno. È sempre stato così””» (Nucini) • «Il fotografo bolognese, nato nel 1926, tuttora vive e lavora sotto le Torri. […] Nel 2016 l’artista ha creato la Fondazione Nino Migliori, con sede a Bologna. […] Bologna. “La mia vita. Fa talmente parte di me che mi riesce difficile definirla”. Un (altro) luogo del cuore? “Framura, in Liguria”» (Pellerano). «Il mio mondo è grande due metri per due, quanto il mio laboratorio» • «Non credo in Dio, nel futuro, nell’aldilà, nell’altra vita. Con la morte tutto finisce» • «Il caso mi ha sempre incuriosito. Quando penso al mistero, non posso che ricondurlo al caso. Lì dentro si nascondono le peggiori tragedie umane e le più grandi conquiste. Ma siamo troppo orgogliosi e narcisi per ammetterlo». • «Un libro, un film, una canzone, un’opera d’arte.Il conte di Montecristo, The Blues Brothers, Volare, l’Uomo vitruviano di Leonardo”» (Pellerano) • «Non si sa se sia merito del santo o dello spritz, ma Nino Migliori è arrivato a 97 anni dritto come un fuso, divertente, felice. Lo spritz, lo beve ogni giorno, a pranzo, insieme a un trancio di pizza con la salsiccia e, a seguire, a un caffè macchiato versato in una tazzina rivestita di nutella. Il santo è quello che ritrasse nella sua prima foto: […] una statua di san Domenico» (Nucini) • «Migliori ha sempre agito con un obiettivo unico e irrinunciabile: spostare sempre più in là i confini della fotografia, riscrivendo di continuo la grammatica delle immagini, aprendo e legittimando filoni di indagine prima di lui sconosciuti. La sua “ricerca senza fine” è una condizione mentale, uno stato fisico. Un bisogno di conoscenza. Una necessità di confronto continuo. Tra le sue mani la fotografia è stata amata e maltrattata. Spogliata e rivestita. Bruciata, dimenticata e riciclata. Ripudiata e nuovamente accolta. Le sue invenzioni sono tutte all’insegna dello svelamento, per una visione mai univoca. E la differenza tra il vedere e il guardare segna il paradigma dei cambiamenti. Quando è sulla via Emilia si cala in testa un elmetto per riprendere simultaneamente, con due fotocamere, il paesaggio che si trova davanti e dietro di lui. La visione intenzionale vale tanto quanto la meraviglia del caso. Per questo, lo stupore occupa un posto privilegiato nel suo alfabeto visivo. Il suo lessico è senza superlativi ed è traducibile in tutte le lingue del mondo. Non c’è mai giudizio, non c’è supremazia; ci sono, semmai, le polaroid manipolate, i ritratti realizzati alla luce di un fiammifero. Ci sono le trasfigurazioni di paesaggi, volti e architetture, ed è sempre lo svolgimento di uno sviluppo armonico, un dono senza nulla in cambio. […] Insomma, ci sono tutta la poesia e tutta l’intensità di chi ha deciso di vivere con la fotografia intesa come un sentimento e non come uno strumento» (Denis Curti) • «Che cos’è per lei la fotografia? “Una lingua comune. E il modo per esprimere quello che ho dentro in quel momento. Io gioco, non cerco le cose serie, cerco di fare quello che mi suggeriscono gli oggetti”» (Nucini). «Penso che il motore della fotografia sia il desiderio di vedere. E di capire. I fotografi hanno sempre preso dalla realtà ciò di cui avevano bisogno, ma devono anche restituire qualcosa che la realtà in quanto tale non ha. È un difficile dare-avere. Ma senza questo scambio di doni non sarei andato da nessuna parte». «La fotografia è solo un mezzo di scrittura: quello che voglio fare emergere è il mio pensiero». «La fotografia è una espressione visuale per cui è senz’altro influenzata dalla storia dell’arte, ma personalmente ritengo che sia più vicina alla letteratura: ne segue i generi, può essere prosa o poesia, può risolversi in un distico o avere il respiro del romanzo, ma è comunque narrazione» • «Che rapporto ha con la sua macchina fotografica? “Non me ne frega niente. È solo uno strumento. Faccio le foto anche con il cellulare. Faccio foto sulla carta fotografica senza usare la macchina. Ho fatto autoritratti bagnandomi la faccia con il liquido di sviluppo e appoggiandola sulla carta. L’ho fatto nel 1949”» (Nucini). «Non sono un purista, altrimenti saremmo dovuti rimanere al dagherrotipo» • «Come lavoro? Mi guardo attorno, cerco sempre qualcosa di nuovo. […] Ho cambiato tanti stili? Sono prima di tutto un curioso e considero davvero poco la mia arte». «Non credo in Dio. […] Ma se è per questo non credo neppure nel mio lavoro. Almeno non ci credo fino in fondo. Ed è la ragione per cui sono condannato a sperimentare. Così mi illudo che cambiare sia il solo modo per dare un senso al mio lavoro. […] Non sono ambizioso. Sono mite e ostinato. Non mi vergogno di dirlo: ma è ciò che rende serena la mia lunga vecchiaia» (Gnoli) • «Si sente la sua età? “Accidenti. Invecchiare vuol dire che il tuo corpo ogni giorno ti regala delle novità”. […] “Lavorare è il mio modo di allontanare il futuro. Un certo tipo di futuro. Perché mi dico che devo fare ancora quel progetto, e poi quell’altro, e quell’altro ancora. E così passano i giorni, i mesi e gli anni”» (Nucini). «La notte non dormo, penso sempre che sia l’ultima. Allora mi alzo, apro il frigo e mangio: sono molto goloso. Poi verso il mattino mi addormento un’ora, e quando mi risveglio scopro con gioia che non è stata l’ultima».