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 2024  ottobre 08 Martedì calendario

Intervista a Walter Veltroni

Nello studio di Walter Veltroni ci sono una gatta che si chiama Anzolin, come il portiere della Juventus degli anni ’60, un disegno di Ettore Scola in cui si riconosce il corridoio de La famiglia, uno di Fellini che parla di Benigni, un po’ della sua storia e delle sue ossessioni. Sul tavolo, il nuovo romanzo in uscita oggi per Marsilio, Buonvino e il circo insanguinato, quinto episodio della saga del commissario gentile di Villa Borghese.Perché il circo?«Perché è un luogo in cui si va con un’ambivalenza di sentimenti. Lo si rispetta, se ne coglie il lato struggente, ma trasmette un senso di inquietudine. Chaplin e Fellini lo hanno raccontato meravigliosamente. Io qui lo uso come luogo di vita totale, dove si sta sempre insieme, i bambini studiano, imparano gli esercizi. Una struttura integrale in cui i pagliacci sono la quintessenza del doppio: fanno ridere e mettono paura. E infatti Buonvino al circo si trova di fronte a un omicidio che non capisce se sia davvero un omicidio».È un romanzo che parla del potere della maldicenza e dell’odio. Perché affidare alla forma del giallo, un racconto quasi filosofico sul mondo di oggi?«In realtà mi sono progressivamente affezionato al personaggio. Sono diventato amico di Buonvino, gli voglio bene, perché mi sembra in questo tempo così selvaggio, violento, approssimativo, una specie di navigatore controvento».Perché è gentile?«È accogliente, uno che sa fare squadra, che non parla sempre di se stesso, rispetta gli altri, non ama la violenza, fa perfino fatica ad arrestare le persone perché sa che comunque è un momento di dolore. È malinconico e divertente, come sono spesso le persone migliori. Ha preso tante botte dalla vita, ma è stato capace di rialzarsi».E poi c’è Villa Borghese.«Un microcosmo, con il tempo che scorre e filtra il mondo di fuori. Non è una fortezza, è un’isola. Il più bel parco culturale d’Europa, incredibilmente a forma di cuore. Un luogo che si presta a questo confronto tra la serenità estatica e l’irruzione della violenza e del sangue».Era il suo parco, da bambino?«Il luogo dove andavo a giocare, ma dire giocare è poco. Jonathan Haidt ha scritto che eravamo la generazione del gioco e siamo diventati quella del telefono. Col gioco si impara a vincere, a perdere, a stare con gli altri. A subire delle delusioni e a governare delle soddisfazioni. E soprattutto si imparano gli occhi degli altri, la carne degli altri, la dipendenza dagli altri. E quindi sì, ci andavo a giocare ma per me è sempre stato molto di più: un luogo di meditazione, di riflessione, come per Ettore (Scola, ndr) questo corridoio. Ci andavo la mattina presto, prima di certi esami. Lì c’era il chiosco di Ivano, quello dove prendevamo la grattachecca dopo la partita».I telefoni, i social, la connessione continua, ci hanno fatto perdere la bellezza dei luoghi?«Ci hanno fatto perdere la relazione con le persone. Tutte queste tecnologie che dovevano restituirci tempo di vita, in realtà fanno sì che quel tempo lo trascorriamo al cellulare. Il luddismo tecnologico è una follia, ma si è creata inevitabilmente, attraverso questo contatto continuo col telefono, una zona di astrazione nella quale non c’è vero scambio, non c’è comunicazione. Tutto è fatto in nome dell’io. A 14 anni si ha un pubblico di follower e averne tanti o pochi determina la tua allegria o la tua depressione».E se dicessimo oggi dei telefonini quello che un tempo i nostri nonni dicevano della televisione, e prima ancora di loro quel che si è detto della radio, o addirittura dei libri? C’è il rischio di combattere una battaglia di retroguardia?«Prima di tutto distinguo internet dai social. Quello che vedo, però, è un mondo in cui le tecnologie servono sempre meno a migliorare la qualità della vita umana e delle relazioni. I social finiscono per rendere tutto semplificato, radicalizzato, banalizzato. È lo schema binario del sì e del no, del pollice su o giù, che è nemico della democrazia e della libertà. La vita è complessa, la democrazia e la libertà hanno bisogno di complessità. La semplificazione, invece, postula un autoritarismo».Sabato Elon Musk era a Butler a saltellare su un palco come una cheerleader per Donald Trump. Il politologo americano Ian Bremmer ha twittato: la democrazia non è fatta per sopportare un tale concentrato di soldi e disinformazione.«È così e non è un caso che questo mondo abbia generato leadership di questo tipo. Abbiamo perduto la vecchia destra conservatrice. Reagan, Thatcher, hanno cambiato tante cose, nel bene e nel male, ma avevano un sacro rispetto delle regole del gioco. Che è saltato completamente. Ho visto The Apprentice, il film sulla formazione di Trump. Le cose che gli insegna questo spregiudicato avvocato newyorchese sono tre: attacca, attacca, attacca; non dire mai la verità; nega sempre di aver perso».Ha imparato.«In generale, da Bolsonaro a Milei, tutte le leadership di questo tipo agiscano esattamente in questo modo. Sono nazionalpopulismi che nascono da una stagione di disagio cui danno risposte semplificate, senza nemmeno curarsi del fatto che appaiano credibili o realistiche. Quando Hillary Clinton ha ricordato che durante la campagna elettorale del 2016 si disse che un gruppo di pedofili la sosteneva, e poi i seguaci di Trump entrarono con le armi in Campidoglio, abbiamo avuto un’anticipazione di quel che sarebbe accaduto da allora in avanti».Che cosa?«Non abbiamo più la certezza della realtà. E questo alimenta un senso di fragilità e di incertezza. Il vecchio “l’ha detto la televisione” era una cosa molto diversa».C’era un filtro.«E c’erano delle regole. Qui chiunque può mettere in circolo notizie devastanti che con l’intelligenza artificiale sembrano vere. Io avverto forte questo clima di disagio, vedo nelle persone un bisogno costante di autocertificazione, di rassicurazione, di conferma delle loro qualità. Tendenzialmente, parlano tutti solo di se stessi. E si sono persi i momenti collettivi. Non dico solo le sezioni dei partiti, ma gli oratori, le chiese, le associazioni culturali. Rimangono solo delle fiammelle di libertà legate ai ragazzi più giovani. Come un disperato desiderio. Pasolini la chiamava: disperata vitalità».Nel suo romanzo ha un ruolo il rancore cieco, quello la cui ragione non si comprende.«Perché è pieno di gente che spera solo nel male per gli altri, che si sente nella condizione di dover giudicare chiunque, che ritiene di avere le competenze per poter dire al governatore della Bce se ha fatto bene o male a tagliare i tassi, che picchia i medici, insulta gli insegnanti. È lo spirito del tempo, ma non è l’unico».È solo quello più rumoroso?«Credo di sì, perché poi esce il film di Paola Cortellesi e ci si accorge del bisogno enorme che c’è di etica, di valori, di senso, di radici. Noi vediamo la punta dell’iceberg, ma non sono sicuro che quell’iceberg assomigli tutto alla sua punta».Perché non riusciamo a concentrarci sulla forza silenziosa di chi resiste all’odio?«Perché a essere raccontata è sempre la punta dell’iceberg. Impazzisco quando leggo “la rete esplode”, e poi sono 500 tweet non si sa di chi. Non sono passatista, ma so che in tutte le grandi rivoluzioni tecnologiche i sistemi politico istituzionali hanno cercato di definire delle regole. Passando dal calesse all’automobile, ci siamo inventati la patente, le cinture di sicurezza, gli airbag, il codice della strada. La tv, i giornali, seguono delle regole».Di che tipo?«Non possono essere usati per fare male alle persone».Musk direbbe che è contro il free speech, la libertà di espressione.«Non c’è niente di libero nell’idea di Musk di free speech. Se non la libertà di manipolare. Lo sguardo dell’anziano che ha paura di qualcosa che non capisce mi fa tristezza, però siamo sempre alla vecchia coppia oppositoria di Umberto Eco: apocalittici o integrati. O si è contro i social o si è zuzzurelloni social. Vorrei uscire dalla dicotomia e pensare che ci si può stare cercando di armonizzare tutto questo con la qualità della vita delle persone. È un compito perfino etico. Ed è anche questa una delle cose che ho tentato di raccontare».Come?«La squadra che circonda Buonvino è un po’ improbabile: c’è un narcolettico, uno che crede alle fake news, un ipovedente, un altro che parla al telefono con la figlia morta. Volevo dimostrare che la perfezione non esiste. Quando si evoca un normotipo, in realtà si evoca qualcosa di inesistente e autoritario. Buonvino riesce a estrarre da ciascuno il suo talento. L’attenzione per la vita degli altri è una cosa che mi sembra stiamo perdendo. Stiamo un po’ sprecando i codici di umanità trasmessi nei secoli precedenti».Sulla Stampa Ayelet Gundar-Goshen ha scritto, a proposito della guerra, del dolore degli altri che non riusciamo a vedere.«Le guerre nascono così. Quando ciascuno pensa che l’unico dolore sia il suo. Io ho l’ossessione per gli anni tra il ‘43 e il ‘45, i più spaventosi e i più grandi della storia italiana. Cade un regime durato vent’anni, arrivano gli occupatori stranieri, i soldati italiani sbandano, i governi scappano e poi la Liberazione e poi la Repubblica. È un periodo meraviglioso perché quelli che hanno liberato l’Italia dal fascismo erano persone che avevano appartenenze ideali assolutamente diverse».Unione Sovietica e Stati Uniti.«Hanno fatto crescere l’Italia facendo convivere dissenso e senso di responsabilità. Inseguendo l’interesse collettivo. Del Pci si potrà dire quel che si vuole, ma è un partito che ha liberato l’Italia e che poi ha accettato di uscire dal governo, dopo la resistenza, pacificamente. Questa grandezza si va perdendo. Tutti mettono la loro bandierina di tre paroline su Tik Tok, ma la politica è l’arte del conflitto più aspro e della convergenza più inaspettata e necessaria. Oggi abbiamo partiti che hanno fatto governi insieme, ma non sono mai stati capaci di scrivere le regole insieme. Dovrebbe essere il contrario. Questa grande marmellata, questo blob infinito della politica italiana, non è la Seconda Repubblica: siamo in un lungo ed estenuante prolungamento dei miasmi della Prima».In cosa abbiamo fallito?«Non siamo riusciti ad accettare che la democrazia sia fatta dalla bellezza delle differenze e del conflitto, e dalla necessità della convergenza».Sul Medio Oriente Schlein ha chiamato Meloni.«Una mossa che ho apprezzato. Ricordiamoci che democristiani e sinistra combattevano gli uni contro gli altri aspramente, ma sul Vietnam marciavano insieme. Giorgio La Pira era democristiano, ma questo non gli impediva di essere contro la guerra americana del Vietnam. Questa finezza è stata sostituita dalla politica dei bastonatori, dei picchiatori, dei semplificatori».La sinistra sembra inerte davanti ai nazionalpopulismi di cui parlava prima.«Penso che la sinistra abbia prestato troppa attenzione alla manovra politica e poca attenzione alla vita reale e concreta delle persone. Finendo per lasciare che il dolore e lo smarrimento, soprattutto degli strati più deboli della popolazione, finissero interpretati dalle semplificazioni estreme».Sì, ma cosa deve fare ora?«Credo che il recupero del rapporto con le persone, il dialogo con la loro vita, debba essere messo davanti alla costrizione di relazioni interne o esterne ai partiti».Davanti al campo largo.«Non è solo da noi, guardi in Francia: si è sconfitta la destra, ma non si riesce a governare. I problemi delle persone sono la sicurezza, l’ambiente, il reddito, la scuola. Bisogna tornare a parlare delle cose usando il linguaggio della realtà. Quel che la sinistra deve evitare, è di adeguarsi allo spirito del tempo. Di finire per parlare con gli stessi stilemi».Deve evitare il qualunquismo?«Ha un’altra lingua, che non deve perdere».—