La Stampa, 8 ottobre 2024
Riconoscere l’uomo nell’uomo
Nell’anniversario del 7 ottobre, la frase che meglio suona dentro di me l’ha pronunciata Alain Finkielkraut: «Essere ebrei è essere coinvolti, in tutte le azioni di Israele: fanno parte di noi. Quando ha fatto scacco all’impero iraniano e ai suoi delegati che hanno giurato di estirpare il “tumore canceroso” costituito da Israele, non solo lo ammiro, ma ne sono orgoglioso. Questa volta i pogromisti non hanno l’ultima parola, la passività ebraica è finita. Ma quando Itamar Ben-Gvir vuole impedire la consegna di aiuti umanitari agli abitanti di Gaza o quando i coloni sovraeccitati bruciano le case palestinesi in Giudea e Samaria, mi sento colpito, mi comprometto, mi sporco. La vergogna in me compete con la rabbia. La brutalizzazione di una parte della società israeliana mi spezza il cuore». Non sono stupito. Anni fa, in un libro, Finkielkraut scrisse che l’idea di una sola, unica umanità «non è consustanziale al genere umano». Gli uomini pensano dalla notte dei tempi e continuano a pensare ora, in questo preciso istante, che il nemico, l’uomo al di là del confine, di un’altra etnia, di un’altra religione, è già un po’ meno uomo. «L’umanità cessa alle frontiere della tribù»: è il giudizio di Claude Lévi-Strauss che Finkielkraut fa suo. Millenni di teologia e filosofia, fondate sull’inviolabile uguaglianza dell’essere umano, vengono regolarmente spazzati via da uno sprofondo di tenebre. Ed è raro, non soltanto sul terreno di battaglia, o nelle sue propaggini, ma anche qui, nelle piazze, sui social, in tv, sui giornali, trovare qualcuno che oltre le frontiere della tribù continua a riconoscere l’uomo nell’uomo.