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 2024  ottobre 08 Martedì calendario

Poste in svendita

Sarà soprattutto un affare per gli “investitori istituzionali”, cioè i grandi fondi, mentre ai dipendenti di Poste sarà destinata una quota minima di azioni, pari al 3% del totale di quelle messe in vendita. È con questo schema che il governo si prepara a cedere sul mercato un altro pezzo del capitale di Poste: nello specifico, il 14% in capo al Tesoro, che vedrebbe la sua quota scendere così dal 29 al 15%, lasciando nelle mani dello Stato comunque una percentuale “superiore al 50%”, e quindi il controllo, grazie al 35% detenuto dalla pubblica Cassa depositi e prestiti.
Il nuovo schema in realtà tanto nuovo non è, visto che ricalca in pieno quello usato nel 2015 per quotare in Borsa il colosso oggi guidato da Matteo Del Fante. All’epoca il governo cedette il 34% del capitale, incassando 3,3 miliardi. Il 14% odierno, ai corsi di Borsa attuali, vale 2,3 miliardi ma qualcosa in più si potrà racimolare, anche se bisogna tenere conto dei costi di collocamento. Il Tesoro ha infatti affidato la pratica a 11 banche tra cui Intesa Sanpaolo, Mediobanca, Unicredit, Citi, Deutsche Bank e JP Morgan, quest’ultima guidata dall’ex ministro (e direttore generale del Tesoro) Vittorio Grilli, che vi entrò proprio alla vigilia della quotazione di Poste e oggi è una presenza costante nei grandi affari che i fondi (e solo loro) stanno facendo con lo Stato grazie ai buoni rapporti con Palazzo Chigi (il piatto grosso è stata la vendita della rete Tim al fondo Usa Kkr). Fioccheranno commissioni milionarie.
L’operazione, che dovrebbe partire il 21 ottobre, “porterà una maggiore democrazia economica”, ha auspicato il ministro Giancarlo Giorgetti. La verità è che è un regalo insensato a questi colossi, a cui è riservata una quota del 70% delle azioni vendute. Il resto andrà ai “risparmiatori”, compresi i dipendenti del gruppo a cui sarà riservata una quota massima del 3% con lotti minimi (circa 100-200 azioni) forse con qualche forma di sconto. Come detto, lo stesso schema pensato nel 2015, il cui effetto è che oggi il 22% del capitale di Poste è controllato da “investitori istituzionali” e solo il 12% è in mano al “retail”. D’altronde l’apertura del capitale ai fondi è l’obiettivo dichiarato sia del governo che del vertice aziendale.
Il governo ha promesso a Bruxelles 20 miliardi di privatizzazioni entro il 2027. Finora tra Eni (3,8%) e Montepaschi (37%) ha incassato 3 miliardi. Con Poste e un altro pezzo di Mps entro l’anno punta a raddoppiare. Almeno con il colosso dei pacchi è però un’operazione totalmente a perdere: il risparmio sul minor debito emesso si fermerebbe a 80 milioni, ma rinunciando ai dividendi (il 14% è valso 140 milioni nel 2023). La perdita secca è di 60 milioni, destinata a salire di anno in anno. Storia già vista. Con la svendita del 2015, lo Stato ha rinunciato a 1,7 miliardi di dividendi al netto dei risparmi sul debito (con la mancata rivalutazione delle azioni, la perdita sale a 4,8 miliardi). Non solo: più fondi nel capitale significa più richiesta di spremere il conto economico. Cosa potrà succedere a Poste – dove il servizio universale (corrispondenza e pacchi) è in perdita e i servizi finanziari in crescita – è facile da intuire. Del Fante ha già paventato l’abbandono del primo nel 2026, quando scadrà la concessione, salvo poi correggersi. I sindacati sono preoccupati. “Ci stiamo infilando in un disastro che ricorda quello di Telecom”, avvisa Nicola Di Ceglie della Slc Cgil.