Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  ottobre 08 Martedì calendario

Intervista a Martina Morandi

«Mi emoziona pensare che adesso gioco contro di loro: quando ero piccolina facevo il servizio campo per Paola Egonu e Alessia Orro quando facevano parte del Club Italia. Vederle vincere a Parigi mi ha fatto tornare indietro nel tempo».
Nella Serie A1 di pallavolo femminile, il torneo dove giocano le campionesse olimpiche di Parigi, ci sarà un debutto molto speciale. Non ha vinto ori, Martina Morandi, ma una battaglia molto più complessa, destabilizzante: prima di scoprire il volley, di diventare un libero, di essere ingaggiata a 22 anni dalla Eurotek Uyba Busto Arsizio (la squadra che ha riportato Julio Velasco nel volley femminile), è stata una bambina che ha sofferto i Dsa, i disturbi specifici dell’apprendimento che riguardano la capacità di leggere, scrivere e calcolare. Domenica la Uyba ha debuttato e perso a Conegliano contro l’Imoco campione in carica, Martina è rimasta in panchina. Il suo passato la commuove ancora adesso quando lo racconta.
Martina, dove comincia la sua storia?
«Nella pallavolo, nel cortile dell’oratorio Triante di Monza. Ma al di fuori dello sport, molto prima, nell’impatto con le scuole elementari».
Nelle classi coi suoi compagni?
«È stato difficile con la dislessia, mi rinchiudevo in me stessa, non avevo tanti amici. Mi dicevano “non ci arrivi alle cose”, “se hai bisogno delle mappe concettuali allora sei, tra virgolette, stupida”.
Vedevano che mi guardavo intorno, non fissavo il mio interlocutore e questo veniva considerato una mancanza di attenzione. Io invece ascoltavo, ma volevo avere tutto sotto controllo».
Nessuno aveva comprensione alle elementari?
«È stato il periodo più difficile, quando ho scoperto che facevo fatica a parlare, a leggere ad alta voce, i compagni mi prendevano in giro, “non riesci neanche a pronunciare una frase”, “perché leggi così sfalsato?”. Le prese in giro sono state pesanti. Coi mieigenitori abbiamo scoperto che si trattava di dislessia, ero pure disgrafica, invertivo le parole, non seguivo la riga. La maestra mi diceva: “Marti, hai dimenticato la riga sotto”, e io invece pensavo diaverla letta».
Come entra la pallavolo nella sua vita?
«La neuropsichiatra disse ai miei genitori, quando avevo dieci anni: “Sarebbe meglio se la ragazzafacesse uno sport di squadra, la aiuterebbe a superare le sue insicurezze”. Era vero. In campo non sentivo la differenza con le altre come a scuola, era come se tutto si annullasse, le etichettesparivano. Ero finalmente tranquilla, avrei voluto stare tutti i giorni in campo. Ho scoperto di essere super competitiva, se in classe prima stavo in un angolino, a un certo punto hanno cominciato a dirmi “giochi a volley? Che bello”. Lo sport mi ha aiutato a fare amicizia, a pensare che la dislessia non è una malattia, rispetto ad altri fai solo più fatica a comprendere, anche nello studio».
Quando ha fatto il salto di qualità nel mondo del volley?
«Sono stata notata e invitata a giocare nel Vero Volley, dopo un anno in seconda squadra Under 13 sono stata scelta per la prima squadra U14. Tornando a casa mi allenavo con attrezzi costruiti da mio padre Matteo, un supporto a cui era assicurata una palla per schiacciare, un cubo per migliorare l’elevazione».
Quanto è stata importante la famiglia nella sua ascesa fino alla Serie A1?
«Tantissimo, al punto da creare una Fondazione Morandi. In collaborazione con Vero Volley è stato creato il progetto “TatticaMENTE”, per migliorare la conoscenza degli allenatori e dell’ambiente in generale nei confronti delle Dsa: quando ero piccola nessuno mi sapeva gestire».
Cosa deve capire un tecnico che allena una nuova Martina Morandi?
«Faccio un esempio: può aiutare tantissimo, come è capitato a me con allenatori inconsapevoli, trovare sul campo cerchi o strisce colorate. Quando gioco ho bisogno di punti di riferimento, la linea dei tre metri, dei nove, i cartelloni, per avere una concezione dello spazio. Poi la comunicazione, che è vitale con atleti con queste caratteristiche».
Gli allenatori sono finalmente all’altezza?
«Diciamo che sono più evoluti, addolciti, hanno cominciato a capire che non siamo tutti uguali, quindi ognuno è unico. Ma almeno in un caso come il mio, serve anche un po’ di severità: per essere richiamati a mettere ancora più attenzione».