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 2024  ottobre 07 Lunedì calendario

La vita da impiegato di Truffaut

Esce «Lezione di cinema», raccolta di interviste e conferenze inedite tenute da François Truffaut a fine carriera. Omaggio per i 40 anni dalla morte (21 ottobre ’84) con una riflessione sorprendente 
Io faccio la vita dell’impiegato. Ogni mattina vado in ufficio, tranne che nei periodi dedicati alla scrittura delle sceneggiature in cui sono invece i miei collaboratori a venire a casa mia. Faccio la vita dell’impiegato e non riesco a considerarmi una star, tranne quando mi reco all’estero. Se partecipo a una retrospettiva dei miei film a Chicago, per esempio, sono improvvisamente costretto a fare un passo indietro. Mi dico: «Ah, sì, è vero, lavoro da venticinque anni, ho fatto venti film», e vedo come la gente mi parla. Ma quella che conduco a Parigi è una vita di lavoro, molto regolare e ingrata. Ingrata perché, nonostante io detesti i tempi morti, c’è sempre una notevole perdita di tempo. La sceneggiatura che speravo di scrivere in sei settimane me ne ha prese dodici. Allora sono costretto a rinviare le date delle riprese che avevo fissato e ho sempre l’impressione di essere impacciato, in difficoltà, perché non sono in grado di fare quanto vorrei. Non mi sminuisco né denigro, ma preferisco il mio lavoro a me stesso. Nonostante sia molto critico nei confronti dei miei film – è l’esercizio a cui mi sono appena dedicato – preferisco sempre essere giudicato per il mio lavoro che per una conversazione o per ciò che sono come persona... Se mi dicessero: «La tal persona vorrebbe cenare con lei», io risponderei che non ceno con nessuno. Le persone sono interessate ai film, prima li guardano e poi ne vogliono parlare. Prima dell’avvento della televisione c’erano molte cene a Parigi. Ma persino allora non so se sarei uscito a cena in città. La sera resto a casa e guardo la televisione, tanto più che ora posso guardare i film grazie al videoregistratore. Per sentirmi una star dovrei prestarmi al gioco delle relazioni sociali, un gioco che in realtà non pratico affatto. Eccetto, come le ho detto, quando esco dalla Francia. Ma anche lì si tratta per forza di qualcosa legato al lavoro – la presentazione di un film o una retrospettiva – perché non faccio il turista...
Lavoro sempre con un collaboratore: Claude de Givray, Bernard Revon, Suzanne Schiffman o Jean Gruault. Prendo appunti durante i viaggi in aereo o durante le mie letture, ma poi non mi piace lavorare da solo, ho bisogno di sedermi con qualcuno e discuterne... dico alla persona con cui voglio lavorare: «C’è questo soggetto a cui sto pensando da molto tempo, non è che potremmo partire da lì?». Prendiamo per esempio Effetto notte, che è nato in maniera strana. Volevo lavorare di nuovo con il mio amico Jean Louis Richard. Poiché era estate, abbiamo affittato una casa vicino ad Antibes e, il primo giorno, gli ho detto che ero indeciso tra due soggetti: una troupe cinematografica che gira un film, oppure un film su un dittatore, con Charles Aznavour.
E lui mi ha risposto: «Il film sul dittatore con Aznavour mi fa un po’ paura, facciamo piuttosto la storia della lavorazione di un film!». Sapendo che ci sarebbero certamente state delle scene di riprese alternate a scene della vita vera, abbiamo iniziato stilando la lista dei personaggi, poi ci siamo lanciati. In due mesi, abbiamo chiuso la nostra sceneggiatura di Effetto notte. Se Jean Louis Richard avesse scelto l’altro soggetto, avremmo lavorato nello stesso modo. A volte, tra la nascita dell’idea e la sua realizzazione passa più tempo. Ho già raccontato come avevo appreso della morte del generale de Gaulle nel novembre del 1970, di ritorno da un viaggio in Finlandia. Sull’aereo avevo letto i Taccuini di Henry James, pubblicati da Denoël, nei quali veniva citato uno dei suoi racconti, L’altare dei morti, che all’epoca non era ancora stato tradotto in francese. Mi feci tradurre quel racconto, lo studiai da diverse angolazioni e iniziai a parlarne a Jean Gruault. Alla fine, ho girato il film solo nel 1977, ossia sette anni dopo aver scoperto il racconto... In quel lasso di tempo ho fatto altri film…
Il progetto per L’uomo che amava le donne è nato durante il montaggio degli Anni in tasca. Avevo chiamato Michel Fermaud per chiedergli se gli interessasse collaborare con me su quel soggetto. Avevamo appena iniziato a lavorarci insieme quando mi chiamò Steven Spielberg per propormi di recitare in Incontri ravvicinati del terzo tipo. Così ho detto a Fermaud: «Lavoreremo separatamente. Io scriverò delle scene in America, tu scriverai delle scene in Francia e ce le scambieremo».
Così lui ha scritto parte delle scene a Parigi, io in Alabama e nel Wyoming. Qualche lettera si è persa per strada ma comunque, bene o male, siamo riusciti a definire una sceneggiatura che ho girato quando sono tornato in Francia. Spesso si tratta di soggetti che ho in mente da moltissimo tempo. All’improvviso, entra in gioco un elemento nuovo, un attore o qualcosa di determinante, che mi spinge a iniziare.
Anche il mio ultimo film, La signora della porta accanto, era un progetto già abbastanza vecchio. Mi dicevo: «Un giorno, dovrò fare un film d’amore dove tutto sarà al passato, dove i personaggi parleranno solo di quanto è successo otto o dieci anni prima, quando stavano insieme. Un film in cui osserverò come si comportano quando si ritrovano». Avevo quel soggetto in testa da molto tempo. Poiché mi ero trovato molto bene a lavorare con Gérard Depardieu nell’Ultimo metrò e Fanny Ardant... mi sembrava molto interessante, ho accelerato un po’ le cose. Ho detto: «Andiamo, prendiamoci due mesi – aprile e maggio – a Grenoble e lanciamoci!». Dopo questa data, loro due sarebbero stati di nuovo occupati e non sarebbero riusciti a essere contemporaneamente liberi prima di uno o due anni. La costruzione di questo film l’ho fatta in qualche giorno, insieme a Suzanne Schiffman, a Parigi. I dialoghi invece sono stati scritti durante le riprese, perché era il solo modo di fare il film.
In altri casi invece il film è molto scritto e molto preparato. Per Adele H., per esempio, esistono otto o dieci versioni della sceneggiatura, più o meno lunghe. In quel caso il lavoro consisteva nel semplificare, eliminare il sovrappiù... Non c’è un metodo. Posso benissimo lavorare su tre film contemporaneamente e a un certo punto dire: «Questo è ciò che faremo per primo, quello per secondo, quello per terzo…».
 
 
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