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 2024  ottobre 07 Lunedì calendario

L’architettura dei batteri

Bisogna ribaltare la prospettiva. Almeno quella abitativa. Smettere di pensarci chiusi dentro edifici asettici (ci passiamo il 90 per cento del nostro tempo), finirla di tenere lontano qualsiasi altra forma vivente riparandoci in una sorta di privé super esclusivo. È il momento di immaginarci parte di un sistema «poroso». E lasciare entrare nelle nostre case piante e animali. Soprattutto batteri. Che diventano progettisti, costruttori, clienti, designer e abitanti di una nuova architettura «biotica». L’hanno teorizzata i due studiosi (insegnano una a Princeton, l’altro alla Columbia) Beatriz Colomina e Mark Wigley: «È una questione che intreccia politica e convivenza. Costruire in modo diverso può abbattere le disuguaglianze». 
Estremi, radicali, sostenitori di un necessario ripensamento della presenza dell’umanità sulla Terra, Colomina, fondatrice e direttrice del programma Interdisciplinary Media and Modernity a Princeton, e Wigley, storico dell’architettura e preside emerito della Columbia, saranno tra i protagonisti di Inequalities, la 24ª Esposizione Internazionale della Triennale di Milano in programma da maggio a novembre dell’anno prossimo: una riflessione, appunto, sul tema delle disparità. «Dimostreremo – anticipano a “la Lettura” – come i batteri siano i veri fabbricanti e manutentori dell’ambiente. E faremo vedere ai visitatori i microbi che abitano nei loro corpi, nei loro uffici, nel palazzo della Triennale». Architettura e batteri, un rapporto simbiotico, controverso, difficile, inevitabile. Il confronto è impari: diecimila anni di architettura contro i 4,5 miliardi di anni di storia della Terra cui hanno massivamente contribuito, da 3,5 miliardi di anni, i batteri. «Durante l’Esposizione mostreremo come l’attitudine antibiotica dell’architettura abbia contribuito alla diminuzione della biodiversità del microbioma umano: le conseguenze si sono viste nell’aumento di patologie come obesità, diabete, varie forme di tumore, malattie autoimmuni. Contemporaneamente, sono aumentati i batteri resistenti agli antibiotici. La nostra – continuano i due docenti – è una chiamata a un modo di progettare che ci riconnetta al suolo, alle piante, alle altre specie viventi». 
Tutta colpa del maschio bianco occidentale (e parecchio in forma). Colomina e Wigley sottolineano l’ossessione antropocentrica dell’architettura dal Rinascimento all’età moderna, da Leonardo a Le Corbusier e oltre: un corpo perfetto inserito in un sistema di proporzioni matematiche. «È un modello che esclude la maggior parte di noi. In realtà il corpo umano è fragile, destinato ad ammalarsi, e l’architettura è un supporto, una pelle artificiale per questa patetica creatura che deve proteggersi dagli elementi esterni ma anche da minacce interne come malattie, paura, solitudine». In concreto, progettare ha significato per secoli il tentativo di creare spazi di separazione tra umani e altre specie viventi. In forma di slogan: l’architettura ha sempre odiato i batteri. Anche prima della scoperta degli antibiotici. E sì che un essere umano «contiene» circa 39 trilioni di batteri (un trilione corrisponde a mille miliardi), di cui 37 nell’intestino, la maggior parte dei quali è «in giro da molto tempo, mentre gli umani sono piuttosto recenti». 
La prima vera ondata di batteriofobia, però, risale all’Ottocento, senz’altro giustificata dalla quantità di vittime provocata dalla tubercolosi. La conseguenza in architettura è stata la progettazione di edifici sterili, il più possibile incontaminati, con superfici lisce, muri bianchi, un po’ come i sanatori di tutta Europa. La battaglia dell’igiene è proseguita nel Novecento con Le Corbusier, che immagina un umano «forte, sano, sorridente» in un nuovo ambiente artificiale, e con «La casa del futuro» (1956) di Alison e Peter Smithson, sorta di capsula spaziale impermeabile. «Ma non esiste – avverte Colomina – un’architettura completamente incontaminata». Anzi, la divisione tra interno e esterno è insalubre da sempre, come dimostrano non solo le prime tracce di tubercolosi trovate in un insediamento del Neolitico, ma anche la sick building syndrome, sindrome dell’edificio malato, attribuibile a edifici ermetici che «si rivelano raccoglitori di malattie». 
La tesi di Colomina e Wigley è chiara. Un eccesso di spirito «antibiotico» ha ridotto le nostre difese. «Questo non significa che siamo contro la pulizia e antimoderni, le restrizioni anti tubercolosi hanno salvato milioni di vite, e lo stesso hanno fatto quelle durante il Covid. Non devono però diventare la vita di tutti i giorni. Serve un salto di mentalità. Dobbiamo cioè immaginare non un ambiente che ospita i batteri, ma vedere i batteri come ambiente. E smetterla di pensare che gli umani, che espellono ogni ora 36 milioni di copie di genoma batterico, sono fatti solo della loro superficie, non possiamo continuare a combattere ciò che fa parte di noi. L’umano è un macro organismo batterico, un contenitore di batteri. L’architettura anti batterica è anti umana». 

Le ricerche scientifiche incoraggiano oggi a stare il più possibile all’aria aperta, a non tenere i bambini troppo lontani dalla sporcizia, a costruire ospedali con sale operatorie dotate di finestre: si calcola che un bambino nato con il cesareo «contenga» più microbioma della sala parto che della madre. Allora il senso delle teorie di Colomina e Wigley va verso un’architettura fatta di isole batteriche che interagiscono tra loro, realizzate con materiali porosi, con elementi in grado di ospitare vegetazione e fauna. Per capire questo «urbanesimo batterico», «selvatico», un esempio – indicano Colomina e Wigley – arriva da Madrid dove l’architetto Andrés Jaque (Leone d’argento a Venezia nel 2021) ha progettato il «Colegio Reggio»: una scuola sostenibile, in cui i materiali sono ridotti del 48 per cento, che «incita i ragazzi all’esplorazione». Commentano i due professori: «La costruzione favorisce la coltura di piante, animali, funghi. La facciata è fatta di strati di sughero che assorbono l’umidità, l’aria passa attraverso, piante e uccelli sono benvenuti. Ha vinto molti premi ed è bellissima!». Altro modello, questa volta pionieristico: la «Casa de Vidro» a San Paolo, Brasile, di Lina Bo Bardi (1914-1992) «che sta diventando un tutt’uno con le piante. L’architettura deve essere più viva». Senza, però, derive estreme, su questo i docenti fanno chiarezza: «Le Corbusier nel 1929 visitò le favelas e ne fu affascinato, ma dobbiamo stare attenti al “favela porn”: ci sarà anche più microbioma lì, ma mancano buon cibo e servizi sanitari. La baracche non sono un modello. E nemmeno i grattacieli: come gli ospedali, ospitano agenti patogeni. Il nostro ideale sono le comunità indigene che vivono a stretto contatto con il suolo e le piante. Il loro microbioma è il più ricco del mondo». 
Riconsiderare i concetti di protezione, stabilità, comfort, cura. Sovvertendo il paradosso dell’architettura antibiotica (che riducendo i batteri intorno a noi riduce la nostra capacità di difenderci) per una progettazione simile all’intestino, «questo è politica, convivere con l’altro». Con un approccio «transpecie» in cui gli esseri viventi si contaminino per la salute del pianeta e per superare le disuguaglianze – e si torna al tema dell’Esposizione – «che vanno affrontate oltre l’essere umano». 
Per Inequalities (tema fortemente voluto dal presidente della Triennale, Stefano Boeri) Colomina e Wigley hanno immaginato un percorso scientifico, uno artistico e uno storico (gli edifici che dal 1950 a oggi hanno «collaborato» con i batteri). Per chiudere la sezione, hanno invitato dieci studi di architettura che lavorano sull’interazione tra edifici e batteri. «La Triennale – annunciano – diventerà un laboratorio vivente».