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 2024  ottobre 07 Lunedì calendario

Le ultime puntate di Jan Fosse

Quando ne abbiamo parlato, e poi quando ne abbiamo riparlato, Jon Fosse mi ha detto che il disegno di Settologia non mi sarebbe stato chiaro fino all’ultima riga. «Septology is a whole», mi ha detto: Settologia è un unico, un’interezza. Ma quando ne parlavamo – a marzo scorso a Oslo, poi a Milano a giugno – la traduzione italiana degli ultimi due capitoli non era pronta. Ho dovuto attendere tutta l’estate. Adesso, finalmente, Un nuovo nome è stato pubblicato e io sono arrivato al termine di Settologia. Nelle ultime righe, proprio come Fosse mi aveva anticipato, un evento rapidissimo illumina le oltre ottocento pagine dell’opera. Asle, il narratore e protagonista, si trova coricato sul letto in casa di una donna, è Natale. Dopo aver respinto un’avance di lei, si mette a fare quello che fa al termine di ogni capitolo: pregare. Prega in latino e prega in nynorsk, prega Dio e prega la Vergine Maria, ed è allora, fulmineo e irrazionale come la discesa dello Spirito, che qualcosa di nuovo accade.

Riassumere la trama di Settologia è quasi offensivo. Non è un’opera che si legga per la trama, la trama è tanto esile quanto potrebbe esserlo, e se fosse diversa il libro esisterebbe comunque. Ma occorre farlo: 
Asle abita nella casa di Dylgia che ha diviso per anni con la moglie Ales, sono stati troppo brevi gli anni trascorsi insieme, prima della morte di lei. Ora Asle siede da solo al tavolo davanti alla finestra e fissa il paesaggio che conosce a memoria. Ha appena finito di dipingere un quadro, un quadro dove due linee di pittura, una viola e l’altra marrone, s’intersecano al centro, formando una croce di Sant’Andrea rovesciata. Nell’intersezione delle linee, i colori viola e marrone «si amalgamano magistralmente». Asle pensa che quello è il miglior quadro che ha mai realizzato eppure la tela gli provoca sentimenti contrastanti, vorrebbe toglierla da lì, sbarazzarsene, forse vorrebbe smettere di dipingere del tutto, non ha fatto altro nella vita. È quasi Natale e il suo vicino di casa Åsleik si presenta per spalare la neve dal vialetto. Invita Asle al pranzo di Natale dalla sorella, lo fa ogni anno e ogni anno Asle rifiuta. Ma forse questa volta è diverso, forse questa volta andrà. L’indecisione sull’accettare o meno l’invito di Åsleik occupa i pensieri di Asle per giorni, e per le ottocento pagine successive. 
Intanto lui si muove avanti e indietro da Dylgia alla cittadina di Byørgvin dove vende i suoi quadri. Una notte trova un amico, un amico che ha curiosamente il suo stesso nome, Asle, ed è un pittore come lui, riverso a terra nella neve. Asle fa ricoverare «l’altro Asle» in ospedale e prende in consegna il suo cane. Ognuno dei sette capitoli si apre con Asle che contempla il quadro con la croce e si chiude con Asle che prega snocciolando il rosario: «Ora pro nobis peccatoribus...».
Ecco la trama. Non c’è molto di più di questo. Se non che, in mezzo a questo poco, scorre tutta la vita di Asle, e scorre tutta la vita dell’altro Asle; la vita dell’Asle vedovo e cattolico e quella del suo alter ego dannato e alcolista.
Asle, Ales, Asle, Åsleik: la somiglianza dei nomi è inebriante e per nulla casuale, perché inSettologia anche i personaggi sono «amalgamati magistralmente» uno con l’altro, a volte non sappiamo più distinguere i confini che li separano. 
Ad aumentare il senso di vertigine concorre l’assenza di punti fermi, di punti fermi ortografici. Nei tre volumi che compongono l’opera non ce n’è nemmeno uno, il che rende Settologia un romanzo fluviale composto da un’unica frase. Si tratta di uno degli aspetti più celebrati dell’opera, ma personalmente non lo trovo così decisivo. Settologia esisterebbe quasi identico, con la stessa grazia e lo stesso mistero, anche se le frasi fossero divise. Jon Fosse ha dichiarato in più occasioni di non aver usato il punto perché non ne ha sentito il bisogno, ha iniziato a scrivere quando si trovava ospite in una residenza nel sud della Francia ed è andato avanti senza la necessità di interrompersi. A whole, un’interezza, un solo fiato, una immagine sola – come quella di un dipinto. 

Italo Calvino parlava del racconto come di un «incantesimo» operato sul tempo. Avere il tempo come materia grezza principale è – credo – ciò che distingue il romanzo da altre forme artistiche o narrative, dalla fotografia e dalla pittura, dal teatro, anche dalla poesia. Settologia manipola il tempo con un incanto nuovo. La durata dell’azione è brevissima (i pochi giorni che precedono il Natale) ed è pressoché immobile, ma quell’intervallo viene deformato, dilatato così tanto da accogliere tutta la vita di Asle. I ricordi non irrompono in maniera pedante né ovvia: i ricordi si manifestano, sono simultanei a ciò che accade. L’infanzia, l’adolescenza e la vita adulta di Asle si sovrappongono, si «amalgamano magistralmente» come le pennellate marrone e viola al centro del quadro con la croce. Così, mentre Asle guida verso Byørgvin per consegnare i suoi quadri alla galleria e costeggia il parco con l’altalena, proprio lì, nel parco innevato, ci sono Asle e Ales giovani e innamorati. I presenti e gli assenti, i vivi e i morti convivono nella stessa scena. In un’intervista Fosse ha detto: «In un certo senso, questo lungo romanzo non descrive che un unico momento». 

In Settologia la pittura serve a Fosse come analogo imperfetto della scrittura. Asle dipinge quadri per togliersi dalla testa le immagini della propria vita, così come Fosse scrive scene della (sua?) vita per liberarsene. Ma Asle sta facendo i conti con il fallimento dell’impresa, perché dopo una vita passata a dipingere, dopo centinaia e centinaia di quadri, le immagini sono ancora lì, più nitide che mai. È ancora lì il bambino che annega nel fiordo davanti ai suoi occhi. È ancora lì Testa Pelata che lo invita a salire in macchina con chissà quali intenzioni. Ales è ancora nel parco a dondolarsi sull’altalena... Il passato riaccade e riaccade, dipingerlo non l’ha cancellato, forse non è servito a nulla. 
Le affinità fra le biografie dei due Asle e quella di Fosse sono innumerevoli: l’infanzia sulla riva del fiordo, il rapporto conflittuale con la madre, la lettura stupefacente di Meister Eckhart, i divorzi, gli anni di alcolismo, la conversione al cattolicesimo... Ciò nonostante Fosse non ha mai presentato Settologia come un testo autobiografico, di certo non lo è in senso stretto e nemmeno ha troppa importanza riconoscerlo come tale. Ma Settologia è di certo l’impronta fedele, precisissima dell’anima di un uomo, di un artista, ed è un’esperienza di comunione assoluta con l’intimità di un altro.

Nella mia vita non ho letto molti libri che mi abbiano entusiasmato altrettanto. Lo confesso con la stessa ingenuità rischiosa che qualcuno potrebbe trovare respingente nella prosa di Settologia. Perché in più di ottocento pagine Jon Fosse non si esibisce mai con le parole, non si esibisce con la sintassi, non si esibisce nell’originalità dei ragionamenti o in quella delle situazioni. Cosa allora? Cosa fa di Settologia il libro che è? Mi viene da dire: l’ascolto interiore e assiduo di una voce. Ma non basta. È qualcosa di ineffabile. «Quando dipingo ciò che faccio riguarda una luce invisibile», dice Asle. 
Una luce invisibile. Ecco, ci stiamo avvicinando. Jon Fosse scrive con la luce. Scrive con il tempo e la luce. Scrive con il tempo, la luce e il silenzio. Gli elementi meno afferrabili della realtà. La constatazione da cui si muove è opposta a quella della maggioranza degli scrittori: è la constatazione del fallimento della lingua. Le parole, per Fosse, sono sempre insufficienti a esprimere ciò che varrebbe la pena di essere espresso, perché «a essere importante non è ciò che viene detto esplicitamente su questo e quello, è altro, qualcosa che parla in silenzio dietro e dentro le frasi». 
Spesso, quindi, sarebbe più saggio non iniziare affatto, non dipingere, non scrivere, non provarci nemmeno. Ma cos’altro può fare uno scrittore, se non perseverare nell’insufficienza dello scrivere? E cos’altro può fare un pittore come Asle, uno che sa solo dipingere, se non continuare? Così, il pittore non smetterà di dipingere e lo scrittore non smetterà di scrivere. Ed entrambi, nella reiterazione di questo sforzo fallimentare – umile e fallimentare come la preghiera – si avvicineranno ogni giorno di più, impercettibilmente, a Dio.