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 2024  ottobre 05 Sabato calendario

Troppi palazzi fascisti

La notizia è che la cancel culture in Italia non esiste, o almeno è un falso problema. Il nostro Paese ha nella conservazione e nella memoria uno dei principali core business: l’antichità, le radici, la storia procurano un notevole impatto culturale e turistico, chi viene da noi cerca questo e non altro. Si applicassero i criteri in voga oltre Oceano non ci sarebbero più le testimonianze degli imperatori romani, che furono pessimi, di carattere e nei fatti, tantomeno i palazzi dei re, forse le chiese, né soprattutto l’architettura fascista. Gli americani si possono anche capire, non hanno storia né tradizione e dei loro scheletri nell’armadio vogliono liberarsi in fretta, visto che i simboli non hanno particolare valore estetico. In Italia, verrebbe da dire per fortuna, il passato non è un peso, anche nelle sue contraddizioni. Giusto talora ricontestualizzarlo, rimuoverlo mai.
Il dibattito sulla questione della difficile eredità dell’architettura fascista continua soprattutto in ambito accademico, a partire dagli studi di Ruth Ben-Ghiat che peraltro contravvengono all’ultima moda americana, per cui puoi occuparti di neri, donne, minoranze solo se appartieni a tali categorie, non dall’esterno, mentre per la nostra generazione era diverso, quindi possibile che un’americana ebrea di origini scozzesi studi il ventennio italiano. Dibattito che continua alla John Cabot University con la presentazione della raccolta di saggi A difficult heritage. The afterlives of Fascist-era art and architecture curata da Carmen Belmonte, docente di Roma Tre e pubblicato nella collana della Biblioteca Hertziana Istituto Max Planck cui partecipano studiosi e storici.
CRONOLOGIA
C’è da scommettere che senza un governo di destra il problema dei lasciti fascisti di arte pubblica risulterebbe meno sentito. A ripercorrere la cronologia dell’Italia repubblicana assisteremmo a momenti molto diversi che hanno seguito la diversa emotività dei tempi. Dopo una prima fase, tra il 1943 e il 25 aprile 1945, di iconoclastia immediata e spontanea, fino almeno alla metà degli anni ’50 si attraversa la defascistizzazione con il riuso di edifici pubblici per una nuova rifunzionalizzazione; le case del fascio diventano case del popolo, il Ministero dell’Africa italiana diventa la sede della Fao, opere d’arte “simpatizzanti” vengono chiuse nei caveau e dimenticate dalla critica, ivi compreso un grande pittore come Mario Sironi.
Poi, verrebbe da dire, quel che fatto è fatto, si registra come un abbandono acritico fino al sopraggiungere di un nuovo paradigma, ovvero anche il patrimonio della memoria fascista è improntato alla tutela, alla conservazione e alla storicizzazione. Ciò che è antico, ha più di cinquant’anni, va comunque preservato e non c’è ragione per applicare il metro dell’etica, della morale, dell’etica nella lettura e nell’interpretazione di arte e architettura, se sono nelle città ci possono restare.
E l’ideologia in questo caso non c’entra nulla, se si considera che l’architettura fascista viene preservata soprattutto nelle grandi città rette da amministrazioni di sinistra e che a capo dei ministeri e dei governi si sono susseguite diverse classi politiche, nessuna di destra e per questo accusabile di nostalgia.
Che la famigerata cancel culture in Italia non prenda piede lo possono dimostrare diversi episodi. La proposta di eliminare la scritta Mussolini Dux sull’obelisco di fronte allo Stadio Olimpico non trovò consensi neppure a sinistra [L’HO MESSO COME CLAMOROSO IN SENSO NEGATIVO! NDR], l’esponente Pd Matteo Orfini fece notare che «i principi della lotta antifascista sono scritti nella nostra Costituzione. Non abbiamo bisogno di cancellare la nostra memoria, seppur a tratti drammatica».
LA MEMORIA SCOMODA
La proposta di “svelare” la pittura L’apoteosi del Fascismo di Luigi Montanarini al Salone d’Onore del Coni venne dall’allora ministro della cultura Walter Veltroni. Un intellettuale antifascista come Leonardo Sciascia si schierò a favore del recupero degli affreschi di Duilio Cambellotti nel Palazzo della Prefettura di Ragusa, persino Sironi venne riportato alle versioni originarie, prima delle coperture dei primi anni repubblicani.
L’Italia rappresenta dunque un unicum in quanto alla conservazione anche scomoda della memoria, argomento che non appassiona la politica e non si infila in pastoie ideologiche, e se rispetto agli americani si può osservare che la differenza stia nel nostro cattolicesimo opposto al loro protestantesimo, ciò non vale nei confronti della Spagna che ha rimosso e demolito le statue di Franco. Al limite si chiede un lavoro di risemantizzazione attraverso targhe informative, strumenti che spieghino come collocare un’opera nella storia. La rilettura è però un sistema complesso, non sempre efficace, e vale la vecchia regola che quando si cerca di nascondere in realtà si evidenzia due volte. La questione si può riassumere in una frase, che mentre le sculture degli schiavisti americani sono di imbarazzante bruttezza, le tolgano non fosse altro per questo, l’architettura fascista spesso è di bellezza primaria e lo riconoscono gli esperti di tutto il mondo, grati che da noi la cancel culture non attecchi.