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 2024  ottobre 07 Lunedì calendario

Chi era Cola di Rienzo

Cola (abbreviativo di Nicola) di Rienzo, nato nel 1313 nel rione romano di Regola da un taverniere e da una lavatrice di panni, visse la sua giovinezza ad Anagni dove diede prova di una notevole disposizione per la cultura. Quando ebbe vent’anni, persi entrambi i genitori, riuscì a farsi mandare ad Avignone dove fu introdotto alla corte di papa Clemente VI che lo prese in simpatia. Man mano che entrò in confidenza con Clemente denunciò al pontefice le malefatte dei baroni romani da lui descritti come ladri, assassini, adulteri, stupratori. Con ciò attirandosi l’odio di molti, in particolare del cardinale Giovanni Colonna. Tornò a Roma nel 1344: tre anni dopo, con il consenso del papa, si autoproclamò «tribuno». Emise un editto contro i suddetti baroni, e fu nuovamente un Colonna, Stefano, che mosse contro di lui. Il popolo insorse a suo favore e mise in fuga l’aggressore: gli uomini dei baroni rimasti in città furono passati per le armi. L’Anonimo romano, che scrisse una Cronica di quegli anni, descrive una Roma che, guidata da Cola, conobbe una miracolosa ripresa.I Colonna, a cui si erano nel frattempo aggiunti gli Orsini e altre famiglie che vedevano a rischio le proprie prerogative, si rivoltarono nuovamente contro di lui. Ma Cola li sconfisse nella battaglia di Porta San Lorenzo (20 novembre 1347).
A questo punto il tribuno si ritenne invincibile. Si accorse però che il legato pontificio poco per volta aveva preso le distanze da lui e in ciò intravide, giustamente, che il papa non si fidava più. Le cose precipitarono e, dopo un breve lasso di tempo, Clemente si spinse a bollarlo come eretico. A quel punto i baroni tornarono all’attacco e Cola fu costretto a rifugiarsi dapprima a Castel Sant’Angelo per poi riparare, dopo varie peripezie, in Boemia alla corte di re Carlo IV. Qualche tempo dopo decise di tornare ad Avignone alla corte del nuovo papa, Innocenzo VI. Il quale per gradi lo riabilitò e nel 1353 lo rimandò a Roma (accompagnato stavolta dal cardinale Egidio Albornoz). Ma il clima era cambiato. Accolto all’inizio con una certa benevolenza dai suoi concittadini, Cola fu presto considerato un uomo diverso da quello che i romani avevano conosciuto e amato anni prima. Iracondo, vendicativo, esoso, fu rapidamente abbandonato persino dai suoi fedelissimi. E fu ucciso, nel 1354, in un agguato.
Secondo Tommaso di Carpegna Falconieri – che ne ha scritto in Cola di Rienzo. Il tribuno del popolo che cercò di riportare Roma alla sua antica grandezza in procinto di essere pubblicato da Salerno Editrice – si può sostenere che, fatta eccezione per alcune figure di santi artisti e sovrani, Cola sia, tra i nati nella penisola italiana, uno degli uomini più noti del suo tempo. Anche se coloro che venissero interrogati sulla sua persona, sarebbero in grado al più di abbozzare una risposta e per il resto saprebbero dire assai poco. Al massimo lo descriverebbero come un capopopolo precursore dell’unità d’Italia che, nella capitale, dà il nome alla principale arteria del rione Prati. Pochissimi ricorderebbero che, all’epoca in cui visse, fu in rapporto con papi, imperatori e con Francesco Petrarca, il quale gli fu davvero amico. Cola si mise a capo della plebe romana assumendo il titolo di «tribuno augusto» e per qualche tempo – secondo un’opinione all’epoca condivisa da tutti (o quasi) – sembrò riuscisse a «riportare l’Urbe agli antichi fasti». Suoi nemici furono fino all’ultimo i potenti che erano i veri padroni della città da oltre un secolo, ben descritti da Sandro Carocci in Baroni di Roma. Dominazioni signorili e lignaggi aristocratici nel Duecento e nel primo Trecentoedito dall’École française de Rome. Un uomo, Cola, «colto, ambizioso, contraddittorio, tuttora per molti versi misterioso e sfuggente» – secondo Carpegna Falconieri – tanto che «non è facile capire chi sia stato e che cosa abbia rappresentato».

Il suo momento cruciale venne nel 1347. Aveva 33 anni e il 14 febbraio affisse segretamente un cartello alla chiesa di San Giorgio al Velabro. Cartello su cui era scritto: «In breve tempo li romani tornaraco allo loro antico buono stato». I romani compresero il senso di quel messaggio e il 20 maggio, giorno di Pentecoste – quarantott’ore dopo che Cola aveva riunito i suoi più fedeli discepoli per informarli delle proprie intenzioni —, gli conferirono i pieni poteri. Facoltà illimitate che lui – memore della carestia a seguito della quale nel 1329 la cittadinanza si era sollevata contro i potenti dell’epoca – usò immediatamente per «affrancare la città dallo strapotere economico dei baroni». I quali fino a quel momento «potevano gestire in maniera autonoma e incontrollata il mercato del grano, facendo incetta dei cereali decidendone successivamente il prezzo e speculando nei periodi di penuria». In un certo senso quella di Cola fu una rivoluzione. O quasi. 
Il suo piano economico aveva come cardini principali il controllo dell’annona assieme all’incremento delle entrate comunali. Il suo programma – secondo Luciano Palermo in Sviluppo economico e società preindustriali. Cicli, strutture e congiunture in Europa dal Medioevo alla prima Età moderna (Viella) – «fu uno dei primi tentativi di impostare in modo un po’ più certo e continuo il problema dei rifornimenti, per sottrarre il potere politico del comune cittadino al ricatto alimentare della carestia provocata dai baroni». E, se non provocata direttamente da loro, in ogni caso abbondantemente sfruttata. 
Questo piano annonario aveva un evidente «secondo fine». Vale a dire, secondo Carpegna Falconieri, «l’espansione del dominio del comune romano nel territorio circostante e nell’intero distretto, sul quale Roma vantava ampi diritti di giurisdizione». Cosa che i baroni, in primo luogo i Colonna, compresero all’istante. Talché si accinsero a contrastare in ogni modo le decisioni del «tribuno» che si andava trasformando in un vero e proprio dittatore, cioè quella figura di «magistrato straordinario che, nella Roma antica, assumeva il pieno potere civile nei momenti di pericolo per la conservazione della Repubblica». Con lo sguardo rivolto ben oltre i confini della città. In un certo senso Cola di Rienzo nel Trecento prefigurò l’Italia. L’ideale politico di Cola di Rienzo nei confronti dell’Italia, scrive lo storico, «è di tale rilievo e di tale potenza evocativa, da costituire uno dei motivi fondamentali del successivo recupero ottocentesco della figura eroica del tribuno che fu cantato come un precursore dell’unità nazionale». La sua intenzione non era certo quella di sottomettere la penisola a Roma capitale. Bensì «di formare una lega di città, una sorta di federazione sulla quale Roma potesse vantare il primato». E poiché tali leghe esistevano già e costituivano all’epoca uno dei pochi collanti politicamente efficaci, scrive Carpegna Falconieri, «l’idea di Cola non era peregrina». Va però qui ricordato che Cola di Rienzo non aveva un ideale nazionalistico che assomigliasse a quello di stampo risorgimentale, bensì un’idea di Roma imperiale che traeva origine dalle assidue letture di Tito Livio. E anche nei comportamenti, via via che il tempo passava, prese sempre più a portarsi pubblicamente come se fosse un Augusto e non un tribuno qualsiasi.

Ed è qui che viene allo scoperto il suo principale difetto: l’essere sostanzialmente un impolitico. Non sa valutare, Cola, né gli amici, né i nemici. Sa far approvare un piano, lo sa anche portare a compimento, ma non è in grado di gestirne le conseguenze. In questo contesto commette, secondo l’autore, errori fatali. Non siamo di fronte ad «un politico che, una volta eletto, non sa (o non vuole) far fronte alle promesse». Anzi. Piuttosto è un uomo di cultura che, messo di fronte alle conseguenze di ciò che è stato in grado di realizzare, «non si rende neppure conto del pasticcio che ha combinato e tenta di risolverlo riportandolo ancora sul piano letterario». Vale a dire «attraverso atti solenni e lettere dense di retorica».
Fu forse anche per questi suoi comportamenti e per la sua impoliticità che Clemente VI si disamorò di lui al punto che Cola, fino a quel momento definito «diletto figlio», per il papa divenne improvvisamente «Nicola di Lorenzo che si intitola tribuno da sé». Segnali che Petrarca colse immediatamente tant’è che provò a mettere in guardia l’amico. Quasi tutti i cardinali erano contro di lui – lo avvertì il poeta – e quando Cola mandò ad Avignone un messaggero per spiegare qual era il suo disegno e cosa stava facendo, il povero emissario fu malmenato, derubato e cacciato via prima ancora che potesse pronunciare una sola parola.
Cola non capì che il vento era cambiato. O, forse, per impedire che i suoi nemici ne approfittassero, provò ad anticiparli. Con una contromossa. Il 15 settembre invitò i baroni ad un banchetto e non appena Stefano Colonna si prese gioco delle sue vesti pompose, li fece incarcerare tutti (probabilmente aveva già in animo di procedere in quel modo, anche se non lo avessero deriso). Li tenne in prigione per tutta la notte e all’alba mandò loro i confessori perché potessero pentirsi prima di essere messi a morte.

Secondo Eugenio Dupré Theseider – in Roma dal comune di popolo alla signoria pontificia(Licinio Cappelli editore) – a quel punto avrebbe dovuto andare fino in fondo e ucciderli. Invece il mattino dopo li liberò, li fece mangiare, li portò con sé a cavallo per tutta Roma e poi li costrinse ad assistere a una messa celebrata in Campidoglio in onore dello Spirito Santo. Quindi scrisse al suo amico Rinaldo Orsini, «per fornire ad Avignone la propria versione prima che ne arrivassero altre», sostenendo che «già dal principio aveva pensato a una messa in scena». E che «mentre i baroni si confessavano devotamente egli già li scusava e li lodava in parlamento». In altre parole, voleva dar prova di quanto grandi fossero i suoi poteri allo scopo di piegarli e sottometterli. Il tutto, però, senza scatenare una guerra civile. A Jean-Claude Maire Vigueur – nel capitolo intitolato Il comune romano della Storia di Roma dall’antichità a oggi. Roma medievale curata da André Vauchez (Laterza) – sembra sia «probabile che, inebriato dal potere, Cola abbia avuto sempre più la tendenza a privilegiare la politica dei gesti e delle apparenze su quella “reale” e abbia per questo perduto l’appoggio del nocciolo duro dei suoi sostenitori». Di quelli, cioè, «che dalla prima ora avevano aderito al suo progetto». In ogni caso l’effetto di quella notte trascorsa in prigione fu assai diverso da quello che il tribuno immaginava. I baroni romani, infatti, «offesi per l’affronto che avevano subito», secondo Carpegna Falconieri, «compresero che rimanere vicino al tribuno significava restare in sua completa balia, rischiando la morte ad ogni suo capriccio». Una seconda occasione «probabilmente sarebbe stata fatale». E «non vollero dargliela». Per di più quando giunse ad Avignone la notizia dei baroni incarcerati, il papa – prima ancora di sapere quello che sarebbe accaduto l’indomani mattina o, forse, fingendo di non saperlo – ordinò l’immediata liberazione dei prigionieri e immediatamente avocò a sé l’intera questione cassando la decisione presa dal tribuno. Da quel momento Clemente VI diede vita ad una campagna apertamente ostile nei confronti del tribuno romano. E contemporaneamente «la reazione della gente comune alle azioni stravaganti di Cola fu quella di un distacco vieppiù marcato». Dovuto «soprattutto a incomprensione».
Anche perché Cola cominciò a mostrare, secondo lo scritto dell’Anonimo romano, «alcuni segni di scarso equilibrio, trasformandosi ben presto in un tiranno». Persino i suoi familiari non si sottrassero a comportamenti considerati unanimemente sempre più eccessivi.

Certamente, riconosce Carpegna Falconieri che pure ammette di essere affascinato dal personaggio, «egli usò e abusò del lusso, così come abusò delle liturgie solenni e delle sentenze capitali». Ma «il banchetto, l’abito di pelliccia, la spada ornata e lo scettro, oltre a solleticare la sua vanità, dovevano mostrare a tutti la sua potenza e la sacralità che voleva fossero connaturate con la sua persona». Difficilmente, insomma, il figlio di un oste, coltivando l’ambizione di diventare imperatore romano, «si sarebbe potuto comportare in altro modo».
Probabile. Ma la vita di Cola di Rienzo che si prolungò per altri sette anni e gli offrì nuove occasioni – agevolate addirittura da una riconciliazione con il papa avignonese Innocenzo VI (successore di Clemente VI) – non gli consentì di riprendersi dagli accadimenti di quel tormentato 1347. E allorché, dopo lunghe peregrinazioni, nel 1354 tornò a Roma, ingrassato e quasi irriconoscibile, dopo qualche iniziale segno di cordialità, quando riprese a dar battaglia fu ucciso e appeso in segno di sfregio davanti alle case dei Colonna. La famiglia che più gli era stata ostile. Fin dall’inizio.