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 2024  ottobre 07 Lunedì calendario

In morte di Sammy Basso


«La me scusa, siora, gala visto la me astronave?» Per capire chi era Sammy Basso occorre immaginare la faccia della signora americana che dieci anni fa, nei saloni dell’Ufo Museum a Roswell, dove la leggenda narra dello sbarco nel dopoguerra di una misteriosa navicella spaziale, si vide venire incontro quella strana creatura minuscola, calva, ossuta, rugosa con due occhiali stupefacenti («robaccia di plastica verde fosforescente, con le lenti scure che riprendono la forma di due occhioni marziani») che in una strana lingua aliena per una casalinga del New Mexico, cioè il dialetto vicentino, le chiedeva se avesse visto la sua astronave: «L’ho parcheggiata qui, a Roswell, nel ’47...»
Tra gli alieniCosì era fatto, quel ragazzo pieno di rughe, sapienza e talento morto l’altra sera ad Asolo a ventinove anni ancora da compiere nel ristorante di un amico cui aveva dato un biglietto col suo motto: «La vita è bella». E lo raccontò allegro in un libro, Il viaggio di Sammy, edito da Rizzoli, di sorprendente freschezza. Spiegando perché nel 2014 aveva voluto, nel viaggio-premio coi genitori e un amico lungo la mitica Route 66 da Chicago a Los Angeles, fare tappa in quella cittadina «capitale spirituale di tutti i fissati di fantascienza e omini verdi»: «Fatto un rapido giro di ricognizione in questo grande deposito di souvenir spaziali, ho deciso di fare quello per cui ero andato lì: spaventare un po’ di gente. Ho un aspetto fuori dal comune, ma mi accetto per come sono. Non mi arrabbio con Dio per avermi fatto così, avrà avuto i suoi motivi e mi sta bene, però se ogni tanto non approfittassi di questa faccia che mi ritrovo per fare qualche scherzo, sarei un pazzo. Non ci voleva molto a notare la somiglianza. A ogni angolo di strada c’erano pupazzoni di alieni alti come ragazzini e, passandoci davanti, le affinità tra la loro e me saltavano all’occhio. Testa lustra, corpo minuto, gambe e braccia sottili: se parlassero in veneto, potrebbero essere miei lontani cugini». Dove apparire se non nel museo? «Mi son guardato attorno e mi sono infilato fra due alieni».
Altri, colpiti dalla Progeria, la Sindrome di Hutchinson-Gilford nota come la «sindrome da invecchiamento precoce», che colpisce un neonato ogni otto o nove milioni, avrebbero maledetto il destino chiudendosi in se stessi. E così infatti è successo per secoli. Come se la disabilità fosse davvero, come dicevano troppi testi sacri di più religioni, un punizione divina. Sammy no. Anzi, grazie anche a mamma Laura e papà Amerigo, fondatori tra l’altro dell’Associazione Italiana Progeria, è cresciuto facendosi carico via via di una missione: uscire allo scoperto. Mostrando con la forza indomita di un leone, per far coraggio agli altri, tutte le sue fragilità. Negli incontri coi ragazzi delle scuole: «Se qualcosa possono imparare da me è che si può non essere perfetti». In televisione. Sul palco di Sanremo.
Sogni e traguardi Rivelava ridendo che Mauro, il fisioterapista che fin da piccolo cercava di arginare i suoi dolori alle ossa («Mi considera il suo vaso di terracotta») faceva degli scherzi alla madre ficcandolo nascosto nella sacca da palestra: «Chi soffre non ha bisogno che gli si ricordi che sta male, ma di essere messo in condizione di pensarci il meno possibile. E niente come una risata riesce a farti sentire a casa, fra amici, in un luogo protetto». Spiegava che, dopo aver preso prima una laurea con 110 e lode in scienze naturali poi un’altra in biologia molecolare, puntava al Cern di Ginevra. Certo, sapeva che quelli come lui fino a qualche anno fa vivevano mediamente poco più di tredici anni. Ma perché, raddoppiata quella quota tempo insuperabile, non sognare altri traguardi se anche al grande Stephen Hawking, il geniale scienziato scopritore dei buchi neri, uno dei suoi miti, era stato pronosticata una scadenza brevissima poi violata per decenni? Perché non sognare?
Dice tutto, sul suo spirito, il racconto magico della visita alla Monument Valley sognata fin dai tempi in cui il papà gli leggeva storie del Far West: «Lì piove una volta l’anno e guarda caso ci siamo capitati in mezzo. Ma è stata una fortuna: abbiamo visto quel paesaggio magnifico con ben due arcobaleni». Non bastasse, ebbe in sorte di trovare come guida Larry, un indiano navajo che in quel fantastico sacrario di rocce era nato e cresciuto coltivando la sapienza degli antichi pellirosse e che, colpito da Sammy, volle fargli il dono più prezioso: «Voglio darti un nome indiano». E lo battezzò «Chaànaàgahiì, che vuol dire: “Uomo che ha ancora tanta strada da fare”». 
Piaceva a tutti. Era impossibile non essere contagiati dal suo entusiasmo. Basti dire che, inviata una lettera a Make-A-Wish, una fondazione nata per aiutare i ragazzi gravemente malati a realizzare il loro sogno più grande, quando arrivò in California scoprì che voleva conoscerlo anche James Cameron («Quando mi ha salutato col suo: “How are you doing, Sammy?”, per poco non svenivo»), l’inventore dell’universo di Avatar dove il protagonista, Jake Sully, è un ex marine paraplegico. E Matt Groening, lo schivo inventore dei Simpson per i quali lui, Sammy, andava letteralmente pazzo. 
Di quel libro bellissimo e ricco di entusiasmo e aneddoti dove annota ironico anche le «dieci cose indispensabili da mettere in valigia» (dalle mutande ai libri, da «una camicia hawaiana per non sfigurare tra i vip di Los Angeles» a un «papillon in caso di serate eleganti») resterà indimenticabile la chiusa: «È questo che cerco di far capire quando qualcuno, magari mosso dalle migliori intenzioni, mi compatisce o si rattrista per me. Non c’è ragione di versare lacrime in mio nome, perché la malattia non mi ha impedito di vivere esperienze uniche. Insieme alla mia famiglia ho fatto e visto cose che la maggior parte delle persone non si sognano nemmeno. Ho ampliato i miei orizzonti studiando le cause del mio male e partecipando attivamente alla ricerca scientifica. (...) Ho una vita faticosa, impegnativa, movimentata, e soprattutto piena. Una vita che merita di essere vissuta». Addio Sammy, che la terra ti sia leggera.