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 2024  ottobre 07 Lunedì calendario

Intervista a Mario Calabresi

Mario Calabresi cammina per Torino con le braccia aperte, sempre pronte al saluto. Rapito da persone, vetrine, strade, tutto. Sembra un sindaco, invece è un cronista.

Dice: «Solo un cronista». Dice «solo» con soddisfazione, senza modestia: sa che il cronista, nei giornali, è tutto. Perché i giornali lavorano con il tempo, sul tempo e, soprattutto, contro il tempo. Lui giornali li ha fatti, diretti, cambiati, ora dirige una podcast company, Chora, scrive una newsletter, Altre Storie.

Al tempo, Mario Calabresi ha dedicato il suo ultimo libro, che parla moltissimo della sola cosa che abbiamo tutti, il presente, e di chi sa amarlo, custodirlo e accettarlo. Ha raccolto le storie di persone capaci di stare e non solo di essere, interessate più a fiorire che a progredire. Si chiama Il tempo del bosco e parla molto della Riserva di Sasso Fratino, la prima riserva integrale istituita in Italia, «il posto meglio conservato del Paese», scelto mille anni fa da monaci benedettini ora rimasti in pochissimi, nell’eremo di Camaldoli, mille metri d’altezza tra gli abeti, dove «si prova il silenzio».

Calabresi, una risposta al perché stiamo tutti male ce l’ha?

«Faccio il cronista, non il sociologo. Io so quello che vedo. E vedo che siamo soli, tutti, e che lo siamo in mezzo agli altri, e anziché guardarci negli occhi, cercarci, osservarci, stiamo al telefono. Io mi sono imposto di non togliere mai il telefono dalle tasche quando sono per strada. E ho imparato che mi perdevo un sacco di cose».

Me ne dica una.

«L’imprevisto. Le cose smettono di succederti quando smetti di guardarti intorno».

Abbiamo troppo e siamo troppo liberi?

«No. O, almeno, non tutti. Vale solo per la parte più giovane della società. Per mia madre no. E infatti lei è più felice. Perché lei ha vissuto dentro binari condivisi».

E noi perché non li abbiamo più?

«Perché i binari sono stati contestati e poi smontati, ed è stato anche giusto e importante, perché erano opprimenti. Però, davano limiti, cornici e quindi sicurezza. Li abbiamo fatti saltare per conquistare libertà, ma nella libertà bisogna sapersi dare un metodo, e bisogna farlo da soli».

Lei quale si è dato?

«Affinché la libertà di poter fare qualunque cosa non diventi un horror vacui, devi darti delle regole. Io mi do quella dello scrittore. Questo libro è venuto perché gli ho garantito il suo spazio: mi sono imposto di scrivere una pagina al giorno, e ho messo per settimane la sveglia alle 5 e mezza. Secondo me è un metodo che si può applicare per tutto».

È un metodo solitario, però. E siamo tutti d’accordo sulla necessità di placarci, rallentare, riaccordarci a una dimensione diversa o nuova, e però perché dobbiamo farlo da soli, ciascuno per sé?

«Sulla copertina del mio libro c’è scritto Il tempo nel bosco dentro la foto di una stazione affollata. È un’indicazione: mescoliamoci con le persone. Anche andare verso gli altri è un esercizio. E risente dell’abitudine e della pigrizia. La curiosità verso il mondo va alimentata, difesa e curata».

Quando sa che ne è valsa la pena?

«Quando ho deciso di andare a vedere quel bosco, mi hanno portato dall’uomo che quella riserva l’ha voluta, e io neanche sapevo che fosse vivo, e invece aveva 105 anni: ecco, sono stato felice. La curiosità verso gli altri mi ha sempre salvato».

Siamo vulnerabili quando ci mettiamo a nudo. Lo sa fare?

«Ho imparato. Lo faccio soprattutto nei miei libri. Una volta ero qui a Torino, in Piazza Vittorio, e da pochissimo non ero più direttore di Repubblica. In quel periodo, ogni volta che incontravo qualcuno che mi chiedeva come stessi, dicevo che stavo bene ed ero pieno di idee. Non era vero, indossavo una maschera. Quella volta, un mio ex collega mi prese alla sprovvista, arrivò all’improvviso prendendomi le spalle e io non feci in tempo a dissimulare: quando mi chiese come stessi, per la prima volta, dissi la verità. Dissi: “Sto come un disoccupato”. E in quel preciso momento mi sentii bene. Ecco perché i miei libri sono stati terapeutici: in tutti ho avuto il coraggio di dire le cose come stavano. Io non ho niente da nascondere o difendere, ecco perché non ho paura».

Neanche di morire?

«Mio padre è morto quando non aveva ancora 35 anni. Quando ho compiuto 35 anni, mi sono reso conto di aver vissuto più di lui. Da allora, sono grato a tutto il tempo che vivo: è tempo in più. Se domattina mi dicessero che ho una malattia grave, sarei dispiaciuto più per le mie figlie e la mia compagna che per me».

Che differenza c’è tra storia e notizia?

«La storia ha un prima e un dopo. La notizia dice l’intensità dell’esplosione ma non spiega perché c’è stata. Solo le storie permettono di capire. E quando uno capisce, sta meglio. La cittadinanza è fatta di comprensione di cose e fenomeni: non è uno stato emotivo».

Le sue figlie le capisce?

«Le ascolto. E, quando non capisco, chiedo di spiegarmi. Le sfido. Il giorno che dirò che i giovani sono cretini sarà il giorno che non sarò più vivo, perché vorrà dire che avrò smesso di interrogarmi».

Lei è stato il giovane per eccellenza dei giornali. Le ha nuociuto?

«Quando alla Stampa abbiamo fatto l’integrazione carta e digitale, il fatto che la facesse uno giovane, che aveva neanche 40 anni, era vista bene. Contestualmente però io ho portato sempre molto rispetto per i grandi, i collaboratori storici, una volta a settimana facevo una chiacchierata con Luigi La Spina gli chiedevo di venire in riunione e mi facevo guidare. Quando sono uscito da Repubblica un giornale pubblicò un articolo un po’ antipatico che diceva: bene, ora ci siamo finalmente liberati del fenomeno che parlava di internet».

Come si diventa da grandi?

«Più elastici, più dolci. Per anni non ho capito perché mio nonno si commuoveva davanti ad alcune cose: ora l’ho capito e mi succede lo stesso. Vent’anni fa non mi commuoveva niente».

Davvero ha smesso di essere dipendente dal telefono?

«E con enorme fatica».

Era dipendente dalle notifiche?

«No».

Neanche dalle visualizzazioni delle Storie di Instagram?

«Mai guardate. Cercavo continuamente stimoli: notizie, storie, reazioni».

Mi racconta di una volta che ha perso tempo?

«Mi arriva una mail che mi avvisa dell’anniversario della morte di Giovanni da Verrazzano, il primo europeo ad arrivare nella Baia di New York. Allora vado a leggere la sua vita, scopro che esiste un Verrazzano Bridge. E scopro che è scritto male, con una sola Z, e che uno studente italo americano ha fatto una petizione per correggere l’errore. E scopro che quello studente vive nel quartiere dove c’è Varrazzano Bridge, che è un quartiere di Brooklyn dove è ambientata la Febbre del sabato sera, e nel quale è nata la mamma di John Travolta. Vado a rivedere la scena del film in cui Travolta guarda il ponte e dice che in quei piloni c’è il corpo di un operaio e cerco notizie e scopro che c’è un libro di Gay Telese sulla storia di quel ponte, lo cerco, e lo trovo solo usato, costa 300 dollari, non lo compro. E ho trascorso un’ora straordinaria».

Si descriva.

«Una volta al supermercato una signora mi disse di spostarmi perché ingombravo. Ingombrante. Curioso. Ho scritto la voce curiosità per il vocabolario Zanichelli. Permaloso».

Italiano?

«Sì, molto».

Che significa esserlo?

«Primo, che parli di cibo mentre mangi. Siamo gli unici a farlo nel mondo. E poi abbiamo un radicamento e un’appartenenza al territorio che altri non hanno. E poi siamo troppo attaccati alla famiglia. Io ne ho una numerosissima ed è bello, ma a volte anche difficile».

Sa di essere bello?

«No. Mi vedo grasso, col faccione».

Ci sono cose che non si capiscono? Trump si capisce?

«Se non capiamo le cose è perché non ci siamo presi abbastanza tempo per capirla. Trump si capisce benissimo. Se leggi Vance lo capisci. E capisci che c’è una parte di America piena di rabbia e di disperazione che vuole qualcuno che rovesci il tavolo e faccia cose radicali, anche irrazionali».

È vitalità?

«No. Vitale è costruttivo. Se voti i neonazisti, fai un gesto forte ma non costruttivo: sai che stai spaccando la società».

Per fare il giornalista si deve essere anche scrittore?

«Le rispondo con una cosa che mi ha raccontato David Grossman: quando non riesce a visualizzare il volto di un personaggio del suo libro, va al supermercato, inizia a girare con il carrello finché non trova una persona che ha un volto che gli sembra quel suo personaggio, ma poi deve scappare via prima di sentire la sua voce perché se sentisse la sua voce, diventerebbe una persona reale. Il giornalista, se trova una persona che gli interessa, la segue, la interroga».

A lei il passato pesa?

«Ha pesato. Sono figlio di una storia complicata. Ed è vero che per anni sono stato un po’ prigioniero dell’essere il figlio di Luigi Calabresi. Poi ho fatto un grande sforzo per fare le mie cose e riuscire a vivere nel presente».

Che mi dice del presente?

«Che ha sempre ragione. Me lo ha detto una volta Natalia Aspesi, non l’ho mai dimenticato».

Le piace?

«Non sempre, ma non conta: ha ragione, e m’adatto».