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 2024  ottobre 06 Domenica calendario

Intervista a Franco Farinelli

Considero Franco Farinelli il più talentuoso e sorprendente tra i geografi. Mestiere che racchiude lo slancio borgesiano dell’invenzione fantastica e l’ossessione per i confini. Il libro più autorevole di Farinelli è La crisi della ragione cartografica (Einaudi). Il suo stile è frutto di un pensiero laterale. Quando parla, descrive e racconta sembra un ballerino di samba. Mai dritto. Trasversale come la sua mente, che a volte si muove come la mossa del cavallo. Farinelli sta lavorando sul complesso rapporto tra la città e le reti neurali. Non si tratta tanto delle applicazioni algoritmiche dell’Intelligenza Artificiale alle smart city, quanto del conglomerato naturale che presiede alla nostra mente. Immaginate la mappa di un cervello e quella di una metropoli.
Entrambe le superfici sono complesse, ma hanno in comune le reti di comunicazione. Collettori che in un caso sono i neuroni, nell’altro le autostrade e i suoi sottoinsiemi di trasporto. Muovono informazioni. Da un lato sotto forma di impulsi elettrici attraverso le sinapsi; dall’altro, sulla spinta di auto, treni, aerei, passeggeri e merci. Mappe che in un certo senso si sovrappongono.
Strutture omologhe. Geografie dell’umano e dell’inumano.
Perché sostieni che la geografia sia il grande archetipo rimosso del sapere occidentale?
«Perché sebbene fosse fin dall’inizio lo strumento principe per orientarsi e definire il mondo, si è preferita la riflessione filosofica. Ma questa non sarebbe potuta nascere senza l’attenzione che i presocratici rivolsero agli elementi naturali: la terra, l’acqua, il fuoco, l’aria. La geografia è stata la prima descrizione di quel mondo».
La rimozione cosa ha comportato?
«Ridurre la figura del geografo a quella di un funzionario atto a ratificare la superficie visiva di uno stato o di un continente. Un rilevatore di confini su cui il potere apponeva le sue bandierine. Un esecutore privo di iniziativa e di originalità».
Però il geografo è anche una figura affascinante e complessa.
«Affascinante per coloro che ne hanno sperimentato la potenza immaginativa e al tempo stesso creativa. Complessa perché grazie alla cartografia la cultura occidentale inventò la Terra».
Ma la Terra già esisteva.
«È vero, ma per comprendere come il mondo funziona nell’età moderna occorreva convincersi che la Terra fosse la copia della mappa e non viceversa».
Come può una “copia” trasformarsi in originale?
«Attribuendo alla mappa una sorta di potere ontologico grazie al quale costruiamo e legittimiamo il mondo reale».
Come sei giunto a questa conclusione?
«Leggendo Kant in un periodo in cui ero in India e mi occupavo di “geografia delle sedi”, ossia degli insediamenti umani, costituiti da villaggi a volte solo virtuali».
Cioè che non esistevano?
«Privi di abitazioni. Quei piccoli territori agricoli erano delle unità fiscali. La mappa definiva “villaggio” un aggregato umano che di fatto non esisteva».
Kant cosa c’entra?
«Prima di essere il grande filosofo che conosciamo, Kant fu geografo. A Königsberg insegnava geografia. Una sua frase mi è sempre parsa rivelatrice: per capire qualcosa del mondo occorre fare non la geografia di ciò che si vede ma “la geografia dello spazio buio che abbiamo nella testa”».
Molto suggestiva ma che vuol dire?
«Mettere ordine nel reale attraverso le categorie dello spazio e del tempo. E lo spazio, quello bidimensionale, è stato per secoli prerogativa della mappa, la cui struttura è fondamentalmente incompatibile con quella della sfera. Dal loro confronto nascono i problemi della nostra contemporaneità».
Prima di dirci in cosa consistono mi incuriosisce la tua permanenza in India. Perché eri laggiù?
«Devo accennarti alla mia storia. Dopo la laurea a Bologna nel 1971, il mio professore Mario Ortolani mi spedì con una borsa di studio in Germania perché lì la geografia aveva avuto – grazie a Kant, a Von Humboldt, ma soprattutto a Carl Ritter e a von Clausewitz – un grande sviluppo. Poi fui mandato in India, all’Università di Varanasi come geografo rurale. Ricordo una frase, l’incipit di un testo inglese, che consultai prima di partire. Diceva: “l’India non esiste, l’India c’è solo sulle mappe”. Quindi per lungo tempo ho oscillato tra la cultura sette ottocentesca tedesca e il crogiuolo di culture e luoghi presenti in India, difficilmente rappresentabili. Di tutto questo fui grato a Ortolani».
Che tipo di insegnante è stato?
«Capì immediatamente che a me interessava solo la geografia. Non c’era altro di rilevante nella mia testa. E mi accolse».
Come mai eri così affascinato dalla materia?
«Probabilmente per le mie origini. Sono nato a Ortona. I miei trafficavano con l’altra sponda dell’Adriatico. Partivano la sera con la barca e dieci ore dopo erano a Spalato. Trasportavano grano e vino. Tornavano con delle partite di legname. La mamma aveva lontane origini slave. Insomma, fin dalle radici i Farinelli hanno avuto una certa dimestichezza con la geografia. Ho studiato al liceo di Ortona e fatto l’università a Bologna».
Dicevi del tuo insegnante.
«Quando gli chiesi la tesi mi disse sì, sì, va bene. Ne riparliamo al nostro rientro. Mi portò con sé in Turchia. Diceva: ti gioverà un po’ di concretezza, sei troppo teorico. Gli ho voluto bene. Ricordo che quando si ammalò gravemente, lo andai a trovare. Mi disse: se torni presentati con una bottiglia di Albana. Alleviò così il suo dolore. Si tolse la flebo e se la scolò. Ortolani fu quasi un padre, ma il mio vero maestro è stato Lucio Gambi. Ha rivoluzionato il sapere geografico».
Non scegliesti però di laurearti con lui.
«No perché non insegnava ancora a Bologna. Lo conobbi in un modo a dir poco curioso. Ero militare a Pordenone. Bersagliere semplice. Un giorno mi dicono che c’è una visita dei miei parenti. Vado nella sala di accoglienza e vedo un signore che non conosco. Pensai a un errore. Mi avvicinai perplesso e lui mi disse: lei è Franco Farinelli? Io sono Lucio Gambi. Se non avesse niente di più importante da fare la inviterei a pranzo».
Eri sorpreso?
«Mi sembrava uno scherzo. Andammo a mangiare e mi propose di collaborare all’ultimo volume della Storia d’Italia di Einaudi dedicato alla geografia. Qualcuno gli aveva passato i miei primi scritti che giudicò interessanti. Non amava farsi chiamare maestro. Ma lo fu nel senso più ampio e generoso. Quando andai in cattedra nel 1984 avevo 36 anni. Seppi solo dopo che si era dato da fare con la commissione, tutta di destra, affinché valutassero positivamente le mie competenze».
Cosa ti piaceva di lui?
«Il fatto che nell’animo fosse un eretico oltre che un sapiente. Per Gambi il solo modo di difendere la grande tradizione geografica era voltarle le spalle».
Tu a cosa hai voltato le spalle?
«Ai modi paludati dell’accademia e certamente alla geografia come mera rappresentazione del mondo».
Accennavi prima al passaggio dalla mappa alla sfera. Cosa intendi?
«Oggi non si può più ripensare il mondo in termini cartografici».
Mettiamo le mappe da parte?
«Intendiamoci, il loro uso è ancora corrente. Ma dalla fine degli anni Sessanta dello scorso secolo c’è stato un salto di paradigma».
Hai spesso evocato una data per questo cambiamento.
«La data è il 1969, quando il Pentagono autorizza il programma, allora legato al segreto militare, di far dialogare una serie di computer a distanza. È la prima volta che l’informazione viene scambiata a distanza e in tempo reale».
Quello che oggi è il sistema dei social ha lì la sua origine?
«La Rete nasce in quel momento anche se ce ne saremmo accorti solo qualche decennio dopo».
Il suo ingresso quali novità apporta?
«La più eclatante è che le categorie di spazio e tempo sono sempre più irrilevanti. Tra gli effetti della globalizzazione c’è l’annullamento della distanza e della durata».
Qual è il rapporto tra la Rete e la globalizzazione?
«Per funzionare e integrarsi hanno bisogno di una struttura sferica, che gli consente di essere qui, ora e ovunque. La sfera non ha più un centro e una periferia. Non ha confini salvo quelli che ne disegnano la totalità. La Rete funziona esattamente così. Idem la globalizzazione. Ci interroghiamo spesso sulla crisi dello Stato nazione. La spiegazione l’abbiamo sotto gli occhi. Lo Stato nasce da una mappa e una mappa delinea confini, centro e periferia. La globalizzazione impone invece un nuovo modello: la crisi dello spazio rende sempre più irrilevante la funzione dello Stato».
Be’, l’attuale conflitto in Ucraina dimostrerebbe proprio il contrario. La Russia invade spazi retti da sovranità altrui.
«È vero. Ma è come stare dentro una guerra novecentesca fatta di invasione di territori altrui. Intendiamoci, le vite umane – e gli eserciti non fanno eccezione – sono ancora legate a logiche spaziali. E questo è un problema per chi oggi voglia fare i conti in termini cognitivi con il funzionamento del mondo».
Probabilmente le logiche spaziali sono troppo ancestrali per potersene liberare.
«Resta ancora il potere simbolico dello spazio. La conquista del Donbass non porterà vantaggi particolari a Putin. Dal punto di vista simbolico certamente sì».
Senza un’idea di spazio come facciamo a orientarci?
«Con la “morte dello spazio moderno” tutto si è maledettamente complicato. Intanto perché sono saltati i rapporti causa-effetto e soggetto-oggetto, categorie con cui spiegavamo la realtà, oggi insufficienti. Passando dall’atomo al bit il mondo si è, in un certo senso, smaterializzato».
Oggi un geografo non può, dal tuo punto di vista, limitarsi al proprio sapere?
«Deve avere un insieme di conoscenze che lo aiutano a raccontare cosa sta accadendo nell’attuale fase del mondo».
Conoscenze di che tipo?
«Parlerei di curiosità e di attenzione agli altri saperi. Gambi con i colleghi geografi si definiva storico. Non era snobismo ma consapevolezza della complessità. Ho sempre amato la filosofia e la letteratura. Ortolani diceva che ero eccessivamente teorico e Gambi mi accusava di fumismo. Ma leggere Kant è stata una risorsa intellettuale».
E la letteratura?
«Insieme all’arte è il più straordinario serbatoio di immagini e di suggestioni. Certi romanzi spiegano la geografia meglio di un geografo».
Viene in mente il grande apologo di Borges sulla carta geografica dell’Imperatore.
«Il sovrano ossessionato dall’ordine volle che i suoi ministri disegnassero una carta che non escludesse niente del suo regno. E ogni volta che gliela sottoponevano la chiedeva più grande e precisa. Ma una carta del regno che eguagli in grandezza il regno stesso è inutile, non può rispecchiare il mondo, può in un certo senso inventarlo. Borges aveva letto Melville. E non solo perché il comportamento “rinunciatario” di Macedonio Fernandez è simile a quello di Bartleby, ma anche perché Melville aveva studiato cartografia».
Sostieni infatti che Moby Dick sia pieno di indizi cartografici.
«Il romanzo ne è disseminato. A un certo punto Melville descrive la fronte di Achab come una mappa e la balena può benissimo rappresentare il globo. La lotta accanita e ossessiva del capitano contro Moby Dick si può ricondurre al confronto drammatico tra la mappa e la sfera».
Achab verrà inghiottito dal mare.
«Impigliato alla balena, sarà trascinato nell’abisso. Per lui, per la Pequod e i suoi marinai è la fine del viaggio».
Non si può sconfiggere la balena.
«La sua immagine potente e totale ci dice che non si può avere la meglio sulla sfera».
Troppo potente?
«Siamo avvolti dalle nuove potenze: piattaforme, Reti, Intelligenza Artificiale, pandemie. È come se la Terra sia tornata alle sue origini. Ma il linguaggio, i codici, le strutture sono interamente nuovi. È il nuovo mondo che dobbiamo imparare a conoscere se vogliamo sopravvivere».