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 2024  ottobre 07 Lunedì calendario

La musica, in solitudine

La prima cosa che viene in mente, leggendo Lo sguardo di Vic, è che il concetto di innocenza è un grande bluff. Stefano Solventi parte da una scena apparentemente innocente di un film apparentemente innocente come Il tempo delle mele, 1980, una commedia sentimentale stravista in tutto il mondo con protagonisti due tredicenni alle prese con la giostra dell’amore. Scena clou: nel bel mezzo di una festa rumorosa Mathieu ( Alexandre Sterling) mette le cuffie di un walkman sulle orecchie di Vic ( Sophie Marceau) per farle ascoltare la romanticissima Reality ( cantata da Richard Sanderson), ribaltando lo scenario emotivo della ragazza da lui così tanto desiderata.
Un walkman cambia improvvisamente lo stato delle cose ed entra a piedi uniti sulla Storia, quella con la S maiuscola ( anche in quella d’amore, ma questo è accessorio). La prima considerazione, nella testa di un boomer, è che il conseguente successo di quella canzone, soprattutto tra i giovanissimi, ha rappresentato il bianchetto di una controriforma culturale spalmato sul furore che aveva animato la coda dei Settanta, dal punk alla new wave all’elettronica dei Kraftwerk e ai molti tentativi di creare una nuova grammatica per tutta la musica a venire. La seconda considerazione, che va oltre l’orizzonte musicale, è che il gesto di Mathieu è il segnale di un cambiamento profondissimo nella fruizione della musica e non solo. Con il walkman, per la prima volta l’ascolto diventa un gesto totalmente individuale, sganciato da qualsiasi contesto e da qualunque situazionesociale. «Chi utilizzava il walkman non aveva poi tanta voglia di condividere l’ascolto – scrive l’autore – a contrario stava scoprendo una modalità inedita di ascoltare. Di più: stava scoprendo un nuovo modo di essere». E aggiunge: «Malgrado il walkman fosse un dispositivo progettato per integrarsi all’individuo, per lasciarlo com’era, a un livello profondo lo cambiava». Il cuore del libro è in effetti un’analisi filosofica e sociologica che parte dal walkman per arrivare a tutti i device e le piattaforme che hanno contribuito a esasperare l’individualizzazione di un qualsiasi contenuto, dal pc all’Mp3 ai videogiochi fino al cd, ai social, agli smartphone e a Spotify. Un cambiamento che è uno specchio dello stravolgimento radicale del rapporto tra individuo e società, tra realtà e suggestioni indotte, tra libertà vere o presunte che ci accompagna ormai dallafine dei Settanta.
L’avvento del walkman, come ha scritto Shuhei Hosokawa, fa sì che «ogni tipo di paesaggio sonoro viene trasformato. Il walkman è in grado di costruire e/ o decostruire la rete del significato urbano, perché può organizzare un teatro aperto e mobile attraverso le sue manovre clandestine, che trasformano la costellazione spaziale dell’urbano. Questo accade perché l’ascoltatore diventa un possibile sconosciuto che parla una lingua pedonale incomprensibile». Come dire che, osservando qualcuno che indossa cuffiette, si può essere indotti a immaginare il tipo di ascolto in atto magari osservando l’aspetto fisico o l’abbigliamento. Con possibilità di errore, ovviamente, altissime.
Un effetto di immediata chiarezza è la vittoria del proprio ascolto sui rumori della città. E poi non esiste più la ricerca delle canzoni preferite alla radio: ognuno diventa il dj di se stesso. Oggi sono concetti acquisiti, ma per arrivare alle autocompilation digitali sono stati necessari numerosi passaggi, a volte osteggiati ( vedi le battaglie dell’industria discografica contro Napster), a volte osannati (il sistema Apple applicato agli smartphone). Solventi suggerisce anche un percorso cinematografico che accompagna ( o suggerisce scenari) questa ondata tecnologica che ha modificatoin modo radicale e irreversibile la percezione del reale e del virtuale: da Terminator aRitorno al futuro passando dalle cuffiette indossate nella vasca da bagno da Julia Roberts in una scena diPretty Woman che ascolta Kiss di Prince fino alle visioni distopiche diStrange Days eMatrix.
Sul piano dei suoni puri e semplici, «l’esperienza analogica era, in fin dei conti, la congiunzione tra l’ascolto e la manifestazione fisica della sua origine (…) Eravamo al cospetto di, come dire, uno slittamento ontologico: se con i supporti analogici la musica rinegoziava il suo esistere per mezzo di un processo evidente e tangibile, la tecnica digitale comportava invece un’astrazione».
In altre parole, questa lunga cronistoria di avanzamenti tecnologici, oltre a seppellire il passato, finisce con l’esasperare il senso di isolamento dell’individuo nell’illusione di una totale autosufficienza. Il che ha una profonda ricaduta emotiva: più è alto il grado di immersione nella propria realtà virtuale, più aumentano paura e disagio. È cambiata la percezione stessa dell’esistenza, il rapporto tra individui, tecnologia e società mischiati in un ordine ormai non più definito. Se Gaber avesse visto tutto questo, avrebbe probabilmente modificato il suo celebre “libertà è partecipazione”.