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 2024  ottobre 07 Lunedì calendario

Intervista a Sophie Kinsella

Sophie Kinsella è consapevole di aver scritto il suo più grande romanzo d’amore?
«Oddio, così piango subito». Siamo nel cuore di Londra, in un intimo salotto pieno di cuscini colorati, tappeti, comodissimi divani, un lucernario sul tetto che fa filtrare i raggi del sole. La regina della commedia romantica mondiale – 30 romanzi, 45 milioni di lettori – è elegantissima: una camicetta bianca con piccole rondini, un ampio pantalone sale e pepe e chicchissime décolletée. Henry, suo marito dal 1991, ha preparato il caffè che serve in grandi tazze di porcellana bianca. Sophie Kinsella, 54 anni, cinque figli due dei quali adolescenti, ha un cancro al cervello, un glioblastoma contro il quale sta lottando. Lo ha rivelato ai suoi fan la scorsa primavera con un post sui social che è diventato virale.
Ma Kinsella è una scrittrice e per affrontare la malattia ha dovuto trasformarla in un romanzo che esce l’8 ottobre in tutto il mondo: Cosa si prova è la storia di Eve, un’autrice di successo che si risveglia in un letto di ospedale. Ma è anche la storia di Nick, il marito che le sta sempre al fianco. L’autrice della saga bestseller mondiale I love shopping, non fa nessuno sconto all’orrore, alla paura, alla rabbia: ha subito un intervento lungo otto ore, ha dovuto imparare di nuovo a camminare, ha vuoti di memoria e sta facendo la chemioterapia. Ma allo stesso tempo ha scritto un grande, immenso, inno alla vita. Un libro molto diverso da quelli ai quali ha abituato i suoi lettori, eppure pieno di speranza, di ironia, di battute folgoranti. E soprattutto d’amore. «Sarebbe stato impossibile raccontare la mia storia senza scrivere di Henry – dice Kinsella mentre le lacrime le solcano le guance – C’è voluto moltissimo tempo prima che io capissi cosa mi era capitato. Henry era solo, ha preso tutto sulle sue spalle. Sono smemorata, mi scordo le cose, ma lui non è mai stato impaziente. Mi spiega tutto un’altra volta, ogni volta». Henry intanto ha tirato fuori una scatola di kleenex. Li useremo tutti almeno una volta mescolando però le lacrime alle risate.
«Da quando mi sono ammalata sono passata attraverso lo shock, la paura, un senso di lutto, di dolore. Ma sono anche stata travolta dall’amore: mio marito ha abbandonato tutto per stare al mio fianco, con i miei figli ci abbracciamo continuamente. Poi ci sono i parenti, gli amici. E la risposta incredibile dei lettori che mi hanno inondata di messaggi d’affetto e di speranza, ma anche di storie positive: un’emozione immensa».
Quando ha deciso di scrivere della sua malattia?
«Mi sono ritrovata in ospedale, non sapevo cosa mi stava succedendo, mi arrivavano notizie terribili. Il mio istinto è stato di prendere il telefonino e dettare alle note vocali quello che sentivo. Quando mi sono sentita meglio, volevo ricominciare a scrivere ma non avevo idee. Poi ho capito che dovevo elaborare questa esperienza. Ho pensato: “Faccio un diario? Ma no, non sono io”. Allora ho scritto un romanzo che funziona come una raccolta di racconti brevi: il mio cervello soffriva talmente che questo era l’unico modo. Quando ho finito mi sono sentita sollevata, liberata: c’è un incipit, un centro e un lieto fine. Ho dato un senso a quello che mi è successo».
Nel libro Eve dice al marito che è paradossale che lei, regina del lieto fine, non possa scrivere il proprio.
«Io sono un’ottimista ma mi piace anche avere il controllo. Quando scrivo sono io che decido. Adesso devo abituarmi all’incertezza ed è sconcertante: non so più qual è il finale. Sono i medici che mi dicono come prosegue la storia. Per questo ho voluto un lieto fine per il romanzo: quello almeno lo scelgo io».
Cosa si prova è molto ironico. Come si fa a ridere del cancro?
«Io sono fatta così, cerco sempre di trovare l’ironia, la parte allegra della vita. C’è questa scena che racconto anche nel romanzo: sono in ospedale, mi stanno preparando per l’intervento e sono letteralmente intrappolata. Arriva il chirurgo e io gli dico: “Bellissima questa spa nella quale mi ha avete piazzata”. Le cose più divertenti arrivano dal dolore».
È un libro positivo, ma allo stesso tempo vero, che non nasconde il dolore, la paura della morte.
«Abbiamo tenuto la notizia riservata per moltissimo tempo: volevo proteggere i miei figli, non volevo che lo scoprissero mentre giocavano o da qualcuno che faceva gossip. Ma quando ho deciso di raccontarlo ho pensato che dovevo essere il più onesta possibile. Gli amici di Henry gli sono stati molto vicini. Ma spesso gli chiedevano: “Di cosa parlate tu e lei a casa? Fate finta di niente? Piangete?”. Ecco, la gente vuole sapere cosa si prova. E magari chi sta lottando con la malattia, o semplicemente vive un momento di difficoltà, può trovare conforto: spero che pensi di avere un’amica al suo fianco».
La scena nella quale Eve e Nick danno la notizia ai figli è una delle più belle del libro.
«È andata davvero così: eravamo riuniti al tavolo, stavamo giocando a Scarabeo. È stato difficilissimo, ma anche un momento di vero sollievo. Da genitore ti senti sempre responsabile della felicità dei tuoi figli. Io mi sono sentita in colpa: sapevo che la notizia avrebbe cambiato la loro vita. Ci sono state lacrime, tante domande ma ce l’abbiamo fatta. Avevamo molti fazzoletti ma poi abbiamo continuato a giocare: i miei figli sono stati bravissimi a mantenere la faccenda leggera perché in famiglia siamo così. Sanno, mi chiedono, ma non è che ci sediamo e piangiamo tutto il giorno: facciamo un passo avanti e continuiamo a vivere. Abbiamo provato così tanto amore in quella stanza».
Proprio qui a Londra un’altra donna ha commosso il mondo e anche da lei arriva un messaggio di profonda speranza e gioia di vivere: la principessa Kate. Ha seguito il suo racconto della malattia?
«Non la conosco di persona ma le faccio i miei più cari auguri. Spero che abbia deciso di rendere pubblica questa notizia e che non abbia pensato di doverlo fare. È dura: più persone informi più diventa reale. Leggi lo sgomento nelle facce degli amici ai quali lo racconti. Io sono piena di ammirazione per la principessa: è onesta, genuina, ha girato video pieni di grazia nei quali sembra sapere esattamente qual è il suo posto nel mondo».
 
«Anche lei ha dovuto pensare ai suoi figli, a come gestire la malattia con i suoi bambini. Anche lei, proprio come Sophie, ha detto di aver aspettato a dare l’annuncio per proteggerli», dice Henry che ascolta l’intervista seduto non troppo distante e ogni tanto, con garbo, interviene. «Henry è il mio hard disk: se mi dimentico qualcosa è lui la mia memoria», dice Kinsella che al marito, conosciuto all’ultimo anno di università a Oxford dove lei si è laureata in Filosofia ed Economia, ha dedicato il romanzo. «Eravamo una coppia unita già prima della malattia – racconta la scrittrice – ma questa esperienza ci ha avvicinati ancora di più: siamo una squadra. Io sono una dormigliona, Henry invece si sveglia presto: ogni giorno legge tutto quello che può sul cancro. Novità sulle cure e soprattutto testimonianze. Ogni mattina quando mi sveglio mi racconta una storia di speranza. Io lo aspetto e gli chiedo: “Qual è il racconto bello di oggi?”. Mi dà grande conforto».
C’è una scena nel libro che ogni tanto ritorna: Eve in ospedale aggrappata al girello mentre cerca di imparare di nuovo a camminare. Nick, il marito, ogni tanto le parla ma lei non può voltarsi e gli dice: «Fatti vedere, entra nel mio campo visivo». Questa presenza costante, ma delicata, indispensabile ma mai invadente, è esattamente la stessa che siede in questo salotto non distante da Westminster, pieno di luce e d’amore, nella tarda mattinata di un venerdì d’autunno.
 
È difficile immaginare che la malattia colpisca le principesse e le regine del lieto fine.
«La prima cosa che ho pensato è: “Ho cinque figli, questa cosa è completamente sbagliata, io mi devo occupare di loro”. Ancora oggi ogni tanto mi sveglio è dico: “No, no, no”. Passi dallo shock al rifiuto. Poi vai avanti. Io scrivo quello che vedo. Quello che so adesso, è che puoi pensare che la tua quotidianità sia perfetta, meravigliosa e poi invece all’improvviso cambia tutto. La mia non è stata una malattia graduale: mi ha travolta. Quello che davvero mi sento di dire a tutti è: godetevi la vita, indossate bei vestiti, andate alle feste, viaggiate, state vicini alle persone che amate perché nessuno di noi sa che cosa accadrà domani».
Il suo penultimo romanzo Sono esaurita è la storia di Sasha che ha un crollo da stress e deve rimettere in piedi la sua vita: non le pare che abbia molto in comune con Cosa si prova?
«Assolutamente sì: è lo stesso viaggio dalla disperazione alla speranza. In ospedale, prima di potermi sottoporre all’intervento, ho dovuto mettermi in forze: fare fisioterapia, fare ginnastica, fare pesi, salire e scendere le scale. E ho pensato tantissimo a Sasha. Arrivi allo stremo e devi trovare la spinta per risalire. Ho dovuto fronteggiare il resto del mondo quando mi è toccato venire a patti con tutte le notizie cattive che continuavano ad arrivarmi e ho pensato tanto, tantissimo, a Sono esaurita».
In fondo lei non ha mai scritto di protagoniste spensierate: da dove nasce l’equivoco che i suoi siano romanzi senza problemi?
«È vero, tutti i miei personaggi hanno un lato oscuro, fanno i conti con i propri demoni. Poi certo c’è l’ironia che è la mia cifra. L’equivoco nasce dal voler catalogare tutto in generi: ma quando mi metto a scrivere non penso di certo “stamattina mi metto a lavorare su questo genere”. Io racconto solo le storie che mi interessano: scrivere di un mondo imperfetto, di personaggi che fanno un viaggio per trovare una dimensione migliore, è un genere? Se lo è allora è il mio».
 
Alla prima uscita pubblica di Kinsella dopo l’annuncio della malattia, lo scorso giugno in una libreria della catena Waterstones di Londra, c’era il tutto esaurito: centinaia di persone che le hanno raccontato come, grazie ai suoi libri, sono riuscite a superare momenti difficili. «Io scrivo solo per i miei lettori e per le mie lettrici, non mi è mai importato granché delle critiche, delle recensioni. Ma spero davvero che questo confine tra i generi sia definitivamente superato».
 
In copertina nel nuovo libro c’è il vestito da sera che ha ispirato I love shopping.
«La storia che racconto nel romanzo è vera: mi firmavo ancora col mio vero nome (come Madeleine Wickham, Kinsella ha firmato sette romanzi, ndr). Henry aveva portato tutti fuori di casa per lasciarmi scrivere. Ma io non riuscivo a combinare niente. Sono andata a fare due passi perché in genere camminare mi aiuta a farmi venire idee. Ma mi sono imbattuta in questa vetrina dove c’era quest’abito bellissimo, con un po’ di coda. Era la cosa più bella che avessi mai visto. La mia missione era diventata provarmelo. Le commesse volevano sapere per quale occasione mi servisse: ma non ce n’era nessuna! Ho pensato che se trovi il vestito giusto, l’occasione prima o poi arriverà. Così l’ho comprato e l’ho anche indossato. Ma alla prima del film di I love shopping di vestito ne ho messo un altro». Ride. «Comunque è in quel camerino che è nata l’idea di Becky Bloomwood e delle sue avventure».
Era il 2000. I libri della serie sono arrivati a quota dieci: si aspettava che Becky sarebbe diventata così iconica?
«All’inizio volevo solo raccontare di una ragazza a Londra sempre in bolletta, una giornalista finanziaria, il mio lavoro prima di dedicarmi alla scrittura. L’idea di questa protagonista incasinata mi divertiva ma non sapevo se sarebbe piaciuta. Solamente quando ho cominciato a incontrare i lettori ho capito che avevo raccontato una storia universale. Alle presentazioni moltissimi mi dicevano: “Io sono Becky” oppure “mia madre, la mia amica, è Becky”. Una volta in Italia un uomo elegantissimo mi ha detto: “Io sono Becky”. E in quel momento ho capito che davvero tutti potevano essere Becky».
Se Eve incontrasse Becky?
«Questo sì che mi piace». Ride di nuovo, una risata coinvolgente, contagiosa. «Sicuramente Becky inventerebbe qualcosa di ridicolo per cercare di risolvere l’intero problema ed Eve la amerebbe subito ma non sarebbe così leggera: lei è più calma!».
Becky tornerà?
«Io ci penso ancora, ho dei piani per lei. Ma per scrivere di Becky ho bisogno di un’energia che adesso non ho: la sua ironia, le sue avventure, sono impegnative. Ecco, la mia speranza è di finire la chemio, recuperare le forze e affrontare lo sprint che lei richiede. Tengo le dita incrociate».
Soffre di perdita di memoria come Dory, la pesciolina del cartone animato Nemo: dica un po’, non ha anche dei lati positivi?
Kinsella ride di gusto. «Io sono Dory! Con Henry li chiamiamo proprio “momenti Dory”. Il lato positivo è che puoi dimenticare anche le cose imbarazzanti, le frasi che non avresti voluto dire: io sto sempre a rimuginare, a pensare se ho detto la cosa giusta. Ecco, adesso posso semplicemente dimenticare». «Un altro vantaggio è che puoi rivedere le puntate delle tue serie preferite come se fossero nuove», interviene Henry. «Ah, io adoro le serie televisive», dice Kinsella.
Lei ha studiato pianoforte: suona ancora?
«Sì, per me è un grande conforto».
I libri e la musica significano tanto per lei: cosa ha ascoltato e cosa ha letto mentre scriveva Cosa si prova?
«Ecco, questo è esattamente il genere di cose che non mi ricordo. Di sicuro musica allegra, perché ho bisogno di vibrazioni positive. Con i libri lunghi faccio fatica: leggo racconti brevi e soprattutto i diari. Ho riletto per esempio Diario di una lady di provincia di E.M. Delafield. Che importa se ti scordi cosa è successo prima? L’indomani ricominci da un nuovo giorno».
 
Nel libro Nick chiede a Eve che cosa le va di fare, se ha desideri che vuole realizzare: un viaggio a Machu Picchu, lanciarsi col paracadute, fare bungee jumping. Ma lei invece chiede una marmellata di arance.
Questa volta a rispondere è Henry, che nel frattempo si è seduto accanto a Sophie sul divano e ogni tanto le sfiora la mano. «Il desiderio è di fare una vita normale, ma un po’ meglio. Fare cose, così le chiamiamo noi, “normali più”: cioè le cose di tutti i giorni ma con un accento in più sulla positività».
 
Kinsella, un ricordo “normale più” dell’ultimo terribile anno?
«Veramente ne ho uno super più: il matrimonio di mio figlio. C’è stato un momento nel quale ho pensato: “Ci sarò?”. Le notizie erano così brutte. È stata una giornata perfetta. Abbiamo ballato, siamo stati felici, tutto era tornato come prima: il cancro non esisteva. Ma non puoi organizzare un matrimonio al giorno. Abbiamo imparato a trovare la gioia in ogni momento. La sera ci mettiamo a letto e ripercorriamo la giornata, ci raccontiamo le cose belle: una passeggiata, uno scambio con i nostri figli, un film o la puntata di una serie che abbiamo visto. Siamo ancora qui».
 
Fuori dalla porta un sole tiepido riscalda Londra. È una giornata perfetta.
Forza Sophie.