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 2024  ottobre 07 Lunedì calendario

Orban a Pontida

È un flop, è vero, non ci sono l’abbondanza, la potenza, il flusso, ma Pontida inquieta più di un successo perché questi sono i mostri italiani dell’Europa uncinata o, se volete, “gli eroi italiani” come scandisce il fascistone olandese di governo Geert Wilders. E il delirio per Victor Orbán, che Salvini contende a Meloni, è una deriva imprevedibile per il nostro Paese che, anche quando, con Bossi e Maroni, si scopriva razzista, restava comunque “maccarone”.
E invece adesso, la “destra frecciata” degli ungheresi e poi dei cechi e dei portoghesi, degli olandesi e degli spagnoli di Vox – anche questi rubati a Giorgia –, degli austriaci e dei francesi e soprattutto di Orbán, appunto, che tutti gli altri trattano come il leader dei leader, il capo dei capi, insomma il mondo storto deposita qui a Pontida un “tu vo’ fare l’ungherese” che, sia pure sotto traccia, in Italia sta contendendo l’egemonia culturale al vecchio, esausto “tu vo’ fa l’americano”.
Piccolo e tozzo, viene invocato e accolto con un “Vik-tor-Vik-tor” che suona come un passo cadenzato. E si trasfigura nel loro Führer quando li riempie di furore «contro l’Europa unita che dobbiamo rioccupare». Li fa ridere felici quando promette: «Deporteremo gli immigrati da Budapest a Bruxelles e li scaricheremo davanti agli uffici dei burocrati». Quasi li trascina in una danza raccontando: «La sinistra mi fa le scenate perché nella Costituzione ungherese c’è scritto che il matrimonio non è una barzelletta e che il padre è uomo e la madre è donna».
Non c’è nient’altro a Pontida che valga quanto questa voglia d’Ungheria con cui Salvini batte a destra Meloni, ben al di là del solito bisogno di accreditamento estero che, ai tempi in cui era «movimentista dove capita capita», consumava imbucandosi e facendosi fotografare tra i fans di Trump, ma anche andando nella Corea di Kim che gli pareva «meglio di Milano».
Solitamente ruvido e maldestro, Salvini obbedendo a quell’altro sé stesso, paziente e strategico, che non riuscirà mai a diventare, ha fiutato l’aria e, come Totò, si è buttato ancora più a destra. Funzionerà? Chiedo «come mai con la Lega?» a due giovanissimi che, con i piedi nel fango del sacro prato hanno il compito di far vivere le bandiere: «Sventolate, sventolate». Cercavano «un partito davvero di destra, e Fratelli d’Italia non lo è più». Li ritrovo quando parla Giorgetti: molti pensano che è di sinistra, ora per esempio sta dicendo che è figlio di un pescatore e di un’operaia tessile… Alla fine ci mettiamo d’accordo così: «È di destra ma anche di sinistra». Passa Vannacci, che qui hadefinitivamente rinunziato a fare un suo partito e si è “consegnato”. Gli piace la folla, la cerca, tocca e si fa toccare, somiglia in questo a Giuseppe Conte, ma anche a Totò Cuffaro, perché anche lui vasa vasa.Qualcuno lo contesta, i più lovasano felici. A Vannacci pare intelligente dire contro la cittadinanza che «dopo cinque anni di residenza in Arabia saudita nessuno diventa arabo». Come in un tormentone comico non c’è intervento sul palco che non concluda con “grazie Salvini”. Scopro un Valditara estremista, che vuole fare “la rivoluzione leghista”, e chissà se parla dell’autonomia differenziata che lo stesso Calderoli, dal palco, dice che è il vecchio sogno della Lega di Bossi e Maroni.
A quel tempo, nel sacro pratone di Pontida, prima Bossi e poi lo stesso Salvini radunavano davvero tanti “padani”. Meglio non imbrogliarsi con i numeri delle folle politiche. Sicuramente oggi sono pochi. Tremila? E se provassimo a pesarli invece di contarli? Sono pochi se cercate i razzisti popolari che chiamavano “orango” le donne di colore e al grido di “va a cagà’ i padrun, va a cagà i terrun” volevano prendere le impronte delle dita dei piedi ai meridionali. È meglio o peggio che oggi ci provino con l’autonomia differenziata?
È il razzismo che si è fatto astuto? Ancora oggi qualcuno fa partire il vecchio coro salviniano «napoletani colerosi e sporchi come cani». Un campionario di squinternati d’assalto ha gridato vaffa a Tajanie sugli striscioni gli hanno dato dello scafista stringendosi attorno a Salvini martire della giustizia. Anche Orbán gli ha detto: «Sei il nostro martire».
A Parigi, a Vienna, a Berlino, i Patrioti, anche quando arrivano primi alle elezioni, subiscono il cordone sanitario dell’emergenza democratica, la Brandmauer, il muro spartifuoco. Qui a Pontida, invece, sfilando in passerella come all’Eurovision Song Contest, gli zozzoni d’Europa cancellano il vecchio verde- lega e impongono il nuovo nero- continental alle panze da birra e salamella di questi militanti che sono una combriccola, ma diventano popolo, come fossero diecimila, solo quando appunto osannano, come dicevo, l’invidiatissimo Orbán, 14 anni di democrazia illiberale, che bellezza. «In Ungheria – dice – il numero degli immigrati è zero». Orbán smargiassa ma con l’aria di non smargiassare. Dice per esempio che l’Europa gli scippa molti soldi. Invece l’Europa lo finanzia, ma lo multa perché imbavaglia la stampa, sottomette la magistratura alla politica e concede gli appalti solo agli amici degli amici.
C’è una magia tribunizia in Orbán, un sinistro fascino danubiano, che gli permette di caricare senza scomporsi, di dire cose terribili e di sedurre con l’ambiguità senza spiegarsi. Quando promette «ci riprenderemo Varsavia» nessuno capisce cosa vuole dire, ma parte un applauso improvviso, apparentemente incongruo, che si contagia, si rafforza, si espande. E intanto negli stand del ristoro le signore affettano il Téliszalámi ungherese e ho visto sventolare qualche bandiera russa quando Orbán ha denunziato: «L’Europa, che era nata per la pace, ora partecipa alla guerra contro la Russia». Ci vuole poco ad accendere il dibattito, qualunque dibattito.
Nello stand della Campania, per esempio, dove offrono mozzarelle di bufala, si parla di guerra, e io lancio un «quel farabutto di Putin» che mi fa correre qualche rischio. Putin qui è «il buon tiranno», «il solo che resiste all’America», «un nostro amico» e «comunque più democratico di Zelensky». C’è anche questo nella nuova, mostruosa tendenza che Salvini vorrebbe definitivamente sottrarre alla Meloni “revisionista” e che rende il raduno di oggi strano, inquietante come un prologo, l’assaggio di un possibile, terribile futuro. E il fango che mi ha rovinato le scarpe ne è il cattivo presagio.