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 2024  ottobre 06 Domenica calendario

Intervista a Emanuela Fanelli

Poche vite hanno un prima e un dopo così netti. Per Emanuela Fanelli, ci sono stati dieci anni da maestra d’asilo di giorno e di stand up comedy di notte nei teatrini off di Roma, poi, due David di Donatello uno dopo l’altro, per Siccità di Paolo Virzì e per C’è ancora domani di Paola Cortellesi, e di colpo, le copertine, il successo. Ora, Emanuela sta per girare Follemente, il nuovo film di Paolo Genovese, sta scrivendo «una cosina, forse una serie». Intanto, tiene sulle ginocchia un cucciolo di pastore australiano che vuole a ogni costo partecipare all’intervista. L’ha chiamato Oreste, «come Marcello Mastroianni in Dramma della gelosia».
Qual è il momento in cui si accorge che niente sarà più come prima?
«Non è ancora arrivato. C’è stato un momento in cui ho potuto pagare l’affitto senza fari altri lavori, ma dentro ho mantenuto lo stesso senso di precarietà. Penso: non sono Sophia Loren, questi sono solo i miei cinque minuti fortunati».
La prima immagine di Emanuela bambina?
«Io che rido con mia nonna materna».
Ride di che cosa?
«Perché nonna aveva tirato giù i pantaloni al nonno per fargli uno scherzo. Era molto simpatica. “Io che rido” è un po’ il sunto della mia infanzia. Papà mi chiama ancora “gengivetta” perché ridevo anche quando non avevo ancora i denti. La vita mi ha regalato un’infanzia felice, che, dopo, mi ha dato un sacco di forza».
Mamma sarta, papà contabile, com’era fatta quest’infanzia?
«Nasco a sorpresa da due genitori giovani. I primi tre anni, abbiamo abitato con la nonna paterna, adorata anche lei, a Largo Preneste, non proprio un quartiere “alto” di Roma».
Neanche della periferia romana dei suoi sketch «a piedi scarzi».
«Poi, siamo andati in affitto a Morena. Lì, si entra prepotentemente in periferia, però non è un racconto del Bronx, quella retorica sulle periferie mi fa ridere. Era un posto carino, sono cresciuta con cugine, zie che mi hanno voluto bene. Questo è un altro regalo, nel senso che non ho i traumi narrati da tanti attori, non è che faccio l’attrice per colmare una ferita affettiva».
I traumi non sono arrivati neanche con l’adolescenza?
«Non mi sono capitate tragedie, ma soprattutto sono cresciuta fra persone che mi hanno insegnato a spostare lo sguardo dai problemi e sorridere. A casa mia, si è parlato di tutto, anche troppo. C’era molta verità. Non era come per quelli che dicono “siamo cresciuti nella menzogna”. Era il contrario, se c’erano problemi si sapevano, ma questo mi ha insegnato a sdrammatizzare. Infatti, alle presentazioni nei laboratori di teatro, non sapevo mai che dire».
In che senso?
«Funziona che arrivi e venti estranei, nel presentarsi, iniziano a raccontare cose privatissime, tipo “mio padre è in galera. Mia madre non mi ha mai amato…”. Io stavo lì e mi chiedevo: mo’ che dico? Pensavo: io non posso fare attrice, non ho ‘sto dolore, non ho proprio il motore. Un anno, mamma era stata male. Sono riuscita solo a dire che tornava dalle cure con la faccia pesta e noi le cantavamo Faccetta nera bell’abissina. Non è che non soffrissi, ma ho pudore dei sentimenti importanti, sia dolorosi sia belli».
Infatti, dei suoi amori non si è mai saputo niente. Ci sono stati?
«Non ho una grande vita privata, ma ci sono stati. Solo che la dichiarazione social in ginocchio davanti alla Torre Eiffel mi fa meno effetto che dirsi qualcosa in pigiama sul divano».
Una volta, ha detto «sono stata fortunata, i miei genitori mi hanno insegnato ad amare bene». Cosa significa amare bene?
«L’amore è mamma che mi faceva il bagno e mi metteva il pigiama caldo preso dal termosifone. È papà che tornava a casa stanco, ma si metteva a fare due tiri di pallone con me. Sono le cose che ti fanno sentire amata e che mi hanno insegnato a riconoscere l’amore».
Come s’imbatte nella recitazione?
«Nonna Silvana mi portò al Sistina a vedere Aggiungi un posto a tavola e mi sembrò una magia. Lei era l’unica ad aver visto la mia attitudine ironica, ma nessuno le dava retta. Raccontava che, mentre mi faceva il bagno, io a due anni avevo fatto il verso alla pubblicità di un sapone con una donna nella vasca di schiuma che diceva con voce flautata: Camay. Poi, al liceo, iniziai un corso di teatro, il regista mi prese nei suoi spettacoli. Debutto e chiedo: papà, com’era? E lui: stavo sotto un bocchettone d’aria fredda, m’è venuto il rigor mortis».
Maestra d’asilo
È stato il mestiere più bello tra tutti quelli che avevo fatto. Mi piaceva, lo rifarei. Quindi se finirà questo momento carino, so che sono felice anche facendo la maestra
Perché ci ha messo tanto ad affermarsi?
«Perché facevo i monologhetti nei teatrini, ma non mi cercavo un’agenzia. Senza, i provini non li fai. Se me la fossi cercata, avrei ammesso che volevo fare quel mestiere e, se non ci fossi riuscita, avrei dovuto dirmi che non ero abbastanza brava. Per cui, mi tenevo il pensiero di fare l’attrice come quelli che dicono: aprirò un chiringuito a Bali. Poi, come in un film di serie C, un’agente mi ha vista fare i monologhetti miei e mi ha messa a fare provini».
Al primo, per «Non essere cattivo» di Claudio Caligari, l’hanno presa.
«Ho fatto il ruolo della “prima smandrappata”. Nessuno ha un esordio così. Però, continuavo a fare la maestra. Ho iniziato coi provini nel 2015, qualcosa è cambiato quando ho fatto in tv Una pezza di Lundini, nel 2020. Col senno di poi, ci ho messo il tempo giusto… Il primo anno, mi ha presa Caligari, poi, il mio mito Corrado Guzzanti, per la serie Dov’è Mario. Potevo pensare: ammazza, appena vado, mi prendono. Invece, dopo, per due o tre anni, ho lavorato poco. Se al contrario fosse passato più tempo, avrei accumulato livore e sarai arrivata al successo senza godermelo, come quelli che dicono: dopo tutto quello che ho passato, era il minimo».
Ha raccontato che, quando lavorava all’asilo, chiese allo psicologo di toglierle la fissa della recitazione. Gliela tolse, almeno per un po’?
«No. I bambini ti smuovono tante cose: ti capita quello che non sopporti, quello che invece proteggeresti da tutto. Ho pensato: prima di fare danni e mandare in giro futuri serial killer, mi devo dare una sistematina pure io. Fra le altre cose, dissi alla psicologa che, a volte, sentivo che la mia felicità stava da un’altra parte perché avevo questo pallino dell’attrice».
Preferiva davvero essere maestra per sempre?
«Era il mestiere più bello di tutti quelli che avevo fatto. Mi piaceva, lo rifarei. Quando tornavo a casa dopo il call center, invece, mi chiedevo: vabbè ma che ho fatto della mia giornata? Se finirà questo momento carino, so che sono felice anche facendo la maestra».
Perché il film di Paola Cortellesi è stato un successo clamoroso?
«Perché il pubblico usciva dal cinema con un’emozione che aveva voglia di condividere, chiamando un amico per dire: ti ci voglio portare, voglio rivederlo con te. Ha toccato una parte affettiva che appartiene alla storia di tutti. Io per interpretare Marisa, l’amica della protagonista che ha un rapporto più paritario col marito, ho pensato alle mie nonne, che erano come lei. È un film che ti fa interrogare sulle donne e gli uomini che ci hanno cresciuto. Ognuno ha fatto i conti con la propria storia personale».
Quello è un film sul patriarcato, ma lei ha anche scherzato sulle donne con la fissa di essere discriminate, inventando l’agente Marilena Licozzi. In tempi di politicamente corretto, è un tema su cui si può ancora scherzare?
«Abbiamo dei problemi per la parità delle donne, ma quando tutto è un problema, poi, più niente lo è. È un tema sui cui mi sono proprio interrogata. Sono stata al Festival di Sanremo quando si dibatteva sul perché dessero i fiori solo alle donne. Pensavo: che devo fare mo’ co ‘sti fiori? A me i fiori piacciono, ma dico grazie perché mi piacciono o perché sono un’ancella del patriarcato? Devo lanciarli contro Amadeus o ringraziare perché sono educata? Poi, mi sono esibita per la cover con Lo Stato sociale, sono scesa dal palco con loro, la valletta coi fiori non mi ha trovata e ho risolto il problema».
A proposito di «C’è ancora domani», ha scritto su Instagram «grazie a Paola Cortellesi per mille motivi, 999 dei quali non c’entrano con cose di cinematografo». Di quei 999, me ne dice tre importanti?
«Per l’amore, per il tempo e per il senso di casa. Quando il film è uscito, ci chiedevano tutti della nostra amicizia e mi sono resa conto che davo una risposta antipatica. Dicevo: siamo amiche ma non come nel cinema dove tutti sono amici, noi siamo amiche veramente. Ma così, insultavo tutti gli altri attori».
Come siete diventate tanto amiche?
«Nel 2015, avevamo fatto insieme Gli ultimi saranno ultimi di Massimiliano Bruno e ci siamo state simpatiche. Un’estate, l’asilo chiudeva ma io dovevo continuare a pagare affitto perché c’è questa trovata di pagarlo anche luglio, agosto… Per cui, lavoravo in un centro estivo e lì mi capita la figlia di Paola. Quindi, rivedo Paola, nasce un’unione affettiva. Quando mi ha offerto il ruolo di Marisa, ho detto: non lo devi fare perché mi vuoi bene. E lei: secondo te, per il mio primo film, chiamo uno per fargli un favore? Ho girato con un peso enorme, pensavo cose da matta. Tipo: se faccio schifo, non me lo dice».
Quanto l’hanno gratificata i premi vinti?
«Mi hanno resa felice, ma non voglio che un riconoscimento mi definisca né visualizzarmi mentre tormento un amico perché non sono stata candidata a un David. È una me mostruosa possibile e voglio evitarla. Per fortuna, se torno a casa, c’è papà che fa: è arrivata Eleonora Duse».
Quella sé mostruosa somiglia all’attrice Luana Pericoli che interpreta in Call my agent.
«Mi diverto a interpretarla perché esorcizzo».
L’amore in pigiama
Io riservata sui miei amori? È che una dichiarazione social in ginocchio sotto la Torre Eiffel mi fa meno effetto che dirsi qualcosa in pigiama sul divano
Che le manca per essere totalmente felice?
«Non ho la rispostona ironica, brillante. Siccome so che, in futuro, per essere totalmente felice, mi mancheranno delle persone, preferisco guardare al presente e dirmi: che bello adesso che ci siamo tutti».