Corriere della Sera, 6 ottobre 2024
Nella mente di Netanyahu
GERUSALEMME I sei volumi di «La Storia della Seconda Guerra Mondiale» stanno allineati nell’ufficio a Gerusalemme dove è entrato per la prima volta nel 1996. Ammirato compulsatore di Winston Churchill, Benjamin Netanyahu si è sempre considerato l’unico leader in grado di proteggere Israele. Eppure quando l’ora più buia è rintoccata all’alba luminosa del 7 ottobre, Mr. Sicurezza – racconta chi gli stava attorno – ha vacillato, quasi incapace di reagire. Almeno per le prime 48 ore, traumatizzato come il resto del Paese dall’eccidio. Così lo trova Joe Biden quando riesce a parlargli: durante la telefonata – ricostruisce The A-tlantic — il primo ministro ripete al presidente americano che l’invasione di Hamas è il preludio a un assalto apocalittico contro lo Stato ebraico.
Lo slogan che nel 2012 lo aveva accompagnato sulla copertina della rivista Time — «Chi è forte sopravvive» – diventa durante lo sfogo con Biden: «Se ci mostriamo deboli, non sopravvivremo». Un mantra che si rafforza in quei primi giorni di caos: una visione fosca ereditata dal padre Ben-Zion che da storico ha studiato per tutta la lunga vita (è morto a 102 anni) le persecuzioni dell’Inquisizione spagnola contro gli ebrei. Come scrive Anshel Pfeffer nella biografia, decisamente non autorizzata, «Bibi – The Turbulent Life and Times of Benjamin Netanyahu» dal genitore ha anche imparato a sentirsi parte degli esclusi: Ben-Zion attivo nella destra sionista, quando la maggioranza stava a sinistra, e segretario di Ze’ev Jabotinsky mentre trionfava l’avversario ideologico David Ben-Gurion, il fondatore della patria; il figlio – o così se la racconta – che deve lottare per essere accettato dalle élite, nonostante il master al Mit di Boston, l’inglese parlato meglio di qualunque altro politico locale, senza l’accento coriaceo dei sabra, la parola ebraica che significa fico d’India e indica i pionieri venuti su spinosi come i cactus nel deserto. Si sente uno svantaggiato al punto di identificarsi con gli elettori del Likud, «abbandonati» alla periferia del Paese e del potere. Grazie a loro arriva ai vertici, per loro può trasformare il processo e l’accusa di corruzione in una persecuzione dei magistrati. «Vedete, se la pigliano sempre con noi».
«È diventata una combinazione di carattere personale e stratagemma politico», commenta adesso Pfeffer, per anni giornalista per il quotidiano Haaretz, ora corrispondente del settimanale britannico Economist. «Il costante presentarsi come una vittima, anche se ormai è diventato il primo ministro più longevo nella Storia di Israele. Ne ha bisogno perché i suoi sostenitori e i partiti nella coalizione devono sentirsi arrabbiati, sempre sotto assedio. Non corrisponde ai fatti, alla realtà, ma l’importante è che funzioni».
La sintesi di Pfeffer
È lento a decidere. È il suo modus operandi. Per questo è così resiliente.
Le punte di oltranzismo? Sempre e solo espedienti,
per sopravvivere
Qualche anno fa un gigantesco poster ricopriva nove dei dodici piani di un grattacielo lungo l’autostrada che da Tel Aviv porta al Nord, verso il confine con il Libano: Netanyahu con Putin, con Trump, con l’indiano Narendra Modi, abbracciati dalla scritta «leader di un altro livello». Da lassù il primo ministro, che compirà 75 anni il 21 ottobre, ha guardato lontano verso l’orizzonte globale degli accordi di Abramo, la normalizzazione con gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrain, il Marocco, il Sudan. Quel che succedeva in basso – tra i palestinesi della Cis-giordania a qualche chilometro da quel palazzone e più a Sud nella Striscia di Gaza – gli sembrava superabile allargando la rete di rapporti con il mondo arabo, costruendo il «Nuovo Medio Oriente». Adesso associa gli eventi trasformativi – «stiamo trasformando gli equilibri della regione» – alle opportunità della guerra: resta difficile dire quanto massicciamente approfitterà della situazione per bombardare l’Iran, ad di là dei proclami. «È sempre stato lento a decidere – commenta Pfeffer —, un procrastinatore. È il suo modus operandi. Per questa ragione è così resiliente».
Tanto resistente da essere risalito nei sondaggi dopo il disastro dello scorso autunno: il Likud era arrivato a perdere due terzi dei consensi. «È troppo presto per badare alle intenzioni degli elettori. Ora siamo in guerra e le operazioni contro l’Hezbollah libanese gli hanno ridato fiato. Ma è Yoav Gallant, il ministro della Difesa, a condurre il conflitto. E il resto? L’economia, i servizi sociali, un piano strategico/diplomatico per il futuro? Nessuno sta facendo nulla». Perfino le sparate più oltranziste di Netanyahu – resteremo a Gaza, mai un’intesa con l’Autorità palestinese – sono secondo Pfeffer una questione di espedienti e di sopravvivenza, un modo di tenersi stretti gli alleati coloni e messianici: «Non è l’uomo delle svolte accelerate, delle ideologie massimaliste. L’unico credo di Bibi è quello di restare al potere».