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 2024  ottobre 06 Domenica calendario

Il 7 ottobre un anno dopo


SEGUE DALLA PRIMA 
Le avrebbe fatte sentire più sicure e forse avrebbe allontanato gli incubi durante i quali, la notte, i terroristi di Hamas irrompevano in casa nostra. 
Nel giro di pochi giorni abbiamo montato la serratura, naturalmente. Si fa qualunque cosa pur di rasserenare i figli. 
Un anno dopo, all’una di notte, mi ritrovo davanti alla porta chiusa a bussare, abbastanza forte perché la figlia soldatessa, che deve aver dimenticato di aprire la seconda serratura prima di addormentarsi, si svegli e mi apra, ma non tanto forte da destare i vicini. 
La figlia soldatessa non si sveglia. Le altre donne di casa sono rimaste a dormire a Gerusalemme dopo un festeggiamento in famiglia e non potrebbero comunque aiutarmi. 
Ci siamo solo io e la porta chiusa. Telefono e ritelefono alla figlia soldatessa, ma non risponde. Busso più forte ma niente, non si sveglia. Ormai sono le due del mattino, i vicini iniziano a lagnarsi per il rumore e io mi rendo conto che non ho speranze: il sonno della figlia soldatessa è troppo profondo, non mi aprirà fino al mattino. 
Mando messaggi WhatsApp agli amici che abitano nei paraggi, in cerca di un rifugio. Nessuno risponde. Tutti dormono. Logico, vista l’ora. Scendo in strada e verifico se riuscirei ad arrampicarmi sulla parete esterna del palazzo per introdurmi nell’appartamento, al secondo piano, ma giungo alla conclusione che è troppo pericoloso. Non ci sono abbastanza appigli a cui aggrapparmi. 
Non mi resta altra scelta che controllare se in zona c’è un bar aperto per tutta la notte e ne trovo uno solo, vicino a una stazione di servizio. Monto in macchina e parto. Aumento il volume della radio per non addormentarmi. I notiziari informano che le probabilità di un cessate il fuoco a Sud sono sempre più ridotte. Le probabilità di una guerra a livello regionale crescono. E le agenzie hanno abbassato il rating di Israele. 
Sono le due e mezza e il bar è sorprendentemente affollato. C’è addirittura una minicoda alla cassa. Ordino un espresso doppio, mi siedo e chiedo alla cassiera carta e penna, se possibile. Poi osservo. Ci sono cose che di notte risultano più visibili. 
Nessuno è lì per divertirsi: ecco la prima cosa che mi salta all’occhio. Non c’è nessuno ubriaco bonario e ridanciano. 
C’è un gruppetto di soldati in uniforme, silenziosi in modo allarmante. Devono essere di passaggio, in movimento tra il confine sud e il confine con il Libano. C’è una coppietta che confabula. Forse questo è l’unico momento e l’unico posto in cui si possono incontrare senza dare nell’occhio. 
Tutti gli altri, e sono tanti, sono soli con il loro caffè. Palpebre a mezz’asta. Tristarelli. Saranno scappati qui per sfuggire agli allarmi dei missili sul Nord? Soffriranno di insonnia? Di incubi? Si saranno ritrovati anche loro davanti a una porta chiusa stanotte? Avranno anche loro una figlia soldatessa esausta di una guerra senza fine? 
Mi siedo, ordino un espresso dopo l’altro, osservo, ascolto conversazioni, sono sovrappensiero. Eventi che per tutto l’ultimo anno ho rimosso perché intollerabilmente tristi si ripresentano di colpo. Durante le lunghe ore bianche in quel bar non rimane niente e nessuno a proteggermi dai ricordi. Non posso fare altro, li devo scrivere. 
Ad esempio il seminario di scrittura per le donne di Kfar Aza, il kibbutz di cui cento abitanti sono stati uccisi il 7 ottobre e gli altri sono sfollati in un albergo vicino a Tel Aviv. Ho esitato prima di accettare di tenerlo. Non ero sicuro di essere in grado di affrontare le emozioni che sarebbero emerse. Di essere abbastanza preparato. D’altro canto, come fai a rifiutare? Durante i primi due incontri ho evitato di proposito di chiedere di scrivere di quel sabato. Non ero sicuro che avrebbero retto loro. Non ero sicuro che avrei retto io. Ho proposto altri argomenti: vacanze trascorse all’estero. Ricordi d’infanzia. Amore. Abbiamo parlato di come si costruisce un personaggio in una storia. Dell’uso del linguaggio. Dell’importanza dei piccoli dettagli nella costruzione di una scena. Poi, all’ultimo incontro, ho preso il coraggio a due mani e ho chiesto esplicitamente di scrivere della ferita. Ma – ho precisato – focalizzatevi su qualcosa di piccolo. Marginale. Apparentemente irrilevante. Sul dramma piccolo collaterale al dramma grande. Il silenzio calato quando hanno iniziato a scrivere era diverso. Carico. Di tanto in tanto qualcuna tirava su col naso. Dopo venti minuti ho chiesto che leggessero. Sono rimasto sorpreso, volevano leggere tutte. Una aveva descritto il cinguettio degli uccelli all’alba, appena prima dell’attacco dei terroristi. Una seconda, l’insalata preparata in fretta e furia prima di tornare nella stanza-rifugio. Una terza, la telefonata veloce, pratica, con il marito uscito a difendere la casa e subito dopo freddato in giardino. Quando il giro di lettura è finito, ho osservato le persone nel cerchio. Tutti, me compreso, avevano le lacrime agli occhi. 
In ogni spazio 
in cui sono entrato quest’anno 
ho trovato persone tristi e preoccupate, bisognose 
di conforto 
Mi torna in mente anche la studentessa particolarmente dotata che ha abbandonato di punto in bianco un altro corso di scrittura, di livello avanzato. Ci ha scritto una breve mail per informare che era costretta a ritirarsi per motivi personali. Le ho telefonato per dire: peccato che molli. Hai un vero talento, raro. È rimasta in silenzio e poi ha spiegato, grazie, ma il mio ragazzo è tornato da Gaza con l’anima in pezzi. Mi prendo cura di lui. Dobbiamo andarcene da qui per qualche mese, altrimenti non ne esce. Tornerò a scrivere, maestro, non ti preoccupare, ma in questo momento la vita è più forte. Ho pensato: è precisamente quello che mi ripeto da quando è iniziata la guerra: adesso la vita è più forte. E le ho detto, ti capisco benissimo e... buona fortuna. 
Quest’anno è capitato solo una volta che abbia detto di no a una richiesta che mi era stata rivolta. Mi hanno contattato dalla struttura per il recupero dei superstiti del festival Nova perché tenessi un laboratorio di trenta minuti. Era novembre, appena un mese dopo che la festa si era trasformata in un bagno di sangue. Ho chiesto se sarebbe stato presente un terapeuta. Hanno risposto di no. Ho chiesto se era possibile avere più di trenta minuti. Hanno risposto di no. Ho chiesto che gli incontri fossero non uno ma una serie, per poter attivare un qualche processo. Hanno detto che non era possibile. Ho pensato: la scrittura porta a galla immagini dolorose. Risveglia demoni sopiti. In mezz’ora non c’è modo che io riesca a radunare i frammenti di emozioni che si sparpaglieranno per la stanza e a dare loro un senso. Rischierei di nuocere ai sopravvissuti al festival, invece di aiutarli. Mi sono scusato con chi mi aveva contattato e ho detto che a quelle condizioni purtroppo ero costretto a rifiutare. 
Ormai sono le quattro del mattino. Mia figlia continua a non rispondere al telefono. La coppietta che confabulava se n’è andata e al suo posto è arrivata un’altra coppietta che confabula, ad occupare esattamente lo stesso tavolo. Come se fosse noto che quello è il tavolo delle coppiette che confabulano. I soldati intanto si sono alzati e, muovendosi come un sol uomo, sono ripartiti per la loro strada. Ho sentito che ripetevano la parola «Libano» diverse volte. Devono essere davvero diretti a nord, alla prossima guerra. Riusciranno a tornare tutti?, penso con preoccupazione. E se anche torneranno, dopo tutto quello che avranno passato saranno ancora capaci di credere nella bontà dell’uomo? 
Ancora oggi mi tormento chiedendomi se mi sono comportato nel modo giusto quando ho detto che senza un terapeuta al mio fianco non me la sentivo di assumermi la responsabilità dei sopravvissuti al Nova. Dopotutto, ogni spazio in cui sono entrato quest’anno è diventato uno spazio di cura. In ogni spazio in cui sono entrato quest’anno ho trovato persone tristi e preoccupate. Bisognose di conforto. Di speranza. Ogni banale incontro con lettori si è concluso con una fila di persone che volevano raccontarmi qualcosa. Condividere. Alleggerirsi. Ripenso a una ragazza timida, a Be’er Sheva. L’incontro con i lettori era terminato e lei ha aspettato con pazienza che tutti, fino all’ultimo, si allontanassero. Ti voglio raccontare una cosa, mi ha detto. Magari un giorno finirà in uno dei tuoi libri. Ti ascolto, l’ho invitata. E lei ha raccontato che suo padre era tra gli ostaggi detenuti da Hamas. Il fatto era, però, che lei aveva scoperto solo un anno prima che quello era il suo padre biologico. Ti rendi conto? Siamo riusciti a incontrarci solo un paio di volte e poi l’hanno rapito. E come sono stati i vostri incontri? Ho chiesto. Strani, ha risposto. Non è proprio mio padre, e nello stesso tempo lo è. Mi sento così anche adesso: sono da considerare tra i «familiari dei rapiti» oppure no? Dovrei disperarmi fino al rilascio del mio padre biologico? Anche se lui per trent’anni non mi ha nemmeno riconosciuta? 
Cerco di ricordare il nome del suo padre biologico ma non ci riesco. Nel frattempo l’avranno rilasciato? L’avranno ucciso? O è ancora in un tunnel di Hamas a marcire e impazzire di fame? Durante le allucinazioni causate dalla fame avrà visto qualche volta questa figlia che è sua e non sua? Ha nostalgia anche di lei? 
Mia figlia mi telefona alle 6 del mattino. È imbarazzata. Si scusa, desolata. Come ha potuto dimenticarsi di aprire la serratura dall’interno? Come? È sicura che sia furioso con lei, ma io non ci riesco. Per la verità, più passano gli anni e meno riesco ad arrabbiarmi con le mie figlie. In quest’ultimo anno, poi, ho solo il desiderio di rallegrarle, proteggerle e raddolcire la durezza della realtà in cui vivono. 
Mia figlia dice che ha aperto. Posso entrare in casa. 
Le compro un croissant al cioccolato ancora caldo ed esco. 
Alla radio sempre le solite cattive notizie. 
Fuori è ancora scuro. 
In un certo senso, penso, tutto quest’anno è stato un’unica lunga notte nera popolata da incubi, calata sugli abitanti di Israele, sugli abitanti di Gaza e sugli abitanti del Libano a precipitare le loro vite nel buio. 
È ora che si levi il sole. 
(Traduzione dall’ebraico 
Ogni banale incontro con i lettori 
si è concluso con 
una fila di persone 
che volevano raccontarmi qualcosa 
di Raffaella Scardi)