Avvenire, 6 ottobre 2024
Dalla “ruggine” di Ohio e Pennsylvania nasce il prossimo presidente americano (prima puntata)
«Who knows?», chi lo sa? È l’eterna risposta che si ottiene ogni volta che domandiamo chi vincerà la più incerta delle corse alla presidenza degli Stati Uniti. I pronostici li danno alla pari. «Too close to call», troppo vicini per un risultato certo.
Siamo a un mese esatto dal fatidico 5 novembre e molti si chiedono se Kamala Harris riuscirà a rompere quel soffitto di vetro che Hillary Clinton non era riuscita a violare nel 2016 e a conquistare la Casa Bianca, e soprattutto che cosa troverebbe sotto quel cielo la prima donna presidente, liberal e non bianca.
Dalla Pennsylvania all’Ohio, dal Michigan al Wisconsin, la nostra lunga traversata del Midwest non ha fornito una risposta convincente. Sembra passato un secolo da quando Barack Obama si guadagnava il suo secondo mandato sulle note di The best is yet to come (“il meglio deve ancora venire”), gioiosa canzone di Frank Sinatra, di fatto uno slogan che quanto a guasconeria rivaleggiava con quel «non avete ancora visto niente» che scandì Ronald Reagan quando venne rieletto. Obama trionfava sull’ala di un accordo vincente con i blue collars del Michigan e dell’Ohio della Chrysler e della General Motors: il presidente li aveva salvati, loro l’avevano ricompensato.
Tempi andati. Oggi i teamsters, il milione e trecentomila fra camionisti e magazzinieri diffidano di Kamala Harris e pur mantenendo ufficialmente il riserbo lasciando intendere che voteranno per Donald Trump. Tutto è in bilico negli Swing States.
Non si sa chi vincerà, ma in compenso si avverte intensa un’eco, staremmo quasi per dire l’afrore, di una paura sotterranea che attraversa tutta l’America e che ha dato linfa e motore all’ascesa di chi aveva perfettamente capito cosa stava accadendo nel ventre molle del Paese.
Chi cioè come Donald Trump già cinque anni fa aveva intercettato la “Grande paura dell’uomo bianco”, figlia a sua volta di una cocente delusione, quella del sottoproletariato bassamente scolarizzato, diventato improvvisamente white trash, spazzatura bianca, tradito nell’ingannevole illusione di appartenere ancora alla middle class e al contrario – come raccontava J.D. Vance nel 2016 quando pubblicò un best seller esemplare come Hillbilly Elegy (Il canto di un bifolco), un romanzo di formazione sospeso fra Cuore di De Amicis e Winesburg, Ohio di Sherwood Anderson – respinto e spodestato da una perfida America che lo ha messo in minoranza perfino nell’idioma materno, da quando i latinos sono diventati il ceppo linguistico più numeroso.
C’è chi li chiama “forgotten men”, i dimenticati.
Steve Roald è uno di quelli. Cinquantotto anni, una vaga somiglianza con l’attore Eli Wallach, Steve gestisce un piccolo albergo ai limiti di downtown Detroit, la cui clientela abituale è già di per sé un ritratto eloquente di un’America molto diversa da come ce la immaginiamo. Dalle piccole utilitarie made in Japan sbarcano nel parcheggio di Steve legioni di bianchi sovrappeso, per i quali la città della fastosa decadenza dei tre grandi marchi automobilistici americani, General Motors, Ford e Chrysler, la città di Charles Lindberg e di Henry Ford, di Madonna, di Francis Ford Coppola è ancora una meta turistica a prezzi abbordabili.
«Cosa vuole che voti? Non ho mai avuto nessun dubbio: ho sempre votato repubblicano. Qualche volta ho avuto la tentazione di cambiare indirizzo, poi è arrivata la crisi, e insieme alla crisi è arrivato Donald Trump. L’ho votato e continuerò a votarlo». Il quiet american Steve Roald è il perfetto rappresentante di quel disagio che l’armata degli scoraggiati e degli sconfitti ha tramutato in rancore, lo stesso che ha portato alcuni all’assalto della collina più alta, veicolato da un negazionismo complottista intriso di pensiero magico. Non c’è bar, non c’è drugstore, non c’è stazione di rifornimento, non c’è lobby di albergo, dalla Pennsylvania all’Ohio, al Michigan, all’Illinois, al Wisconsin in cui non sia perennemente in funzione uno schermo piatto rutilante di immagini. Ma sotto i cieli del Midwest la sfida fra Trump e Kamala sembra quasi appartenere a un altro mondo: incollati agli incontri di football, all’hockey, al baseball gli americani sembrano ignorarli.
«Oggi – afferma Lucas Daprile del Plain Dealer, il principale quotidiano di Cleveland – la sfida televisiva si riduce a un promemoria per apprezzare l’esibizione del candidato per cui si è già deciso di votare. Chi supporta Trump non cambierà certo idea solo perché Harris ha brillato durante il dibattito, e viceversa. Entrambi, Trump e Kamala, si rivolgono principalmente al proprio elettorato: quel 68-70% di bianchi che di solito votano repubblicano e quel 93-95% di neri che tradizionalmente sostengono i democratici. Senza contare i 47 milioni di americani bianchi con un basso livello di istruzione che non si sono mai registrati per votare».
Cosa teme, Steve, se vincerà Kamala? «L’America diventerà una succursale della Corea del Nord, una nazione comunista, dove a comandare saranno i democratici e a spadroneggiare saranno gli immigrati che gli hanno dato i voti. La Harris è solo una gattara». Parola di J.D.Vance.
Già, Vance… Avevamo avuto la tentazione di deviare per Springfield (che ha lo stesso nome dell’immaginaria città dei Simpson), dove Vance ha messo in guardia i bianchi per bene dalle «barbare consuetudini alimentari degli emigrati haitiani», che a suo dire mangerebbero cani e gatti in compagnia di «quella gattara senza figli di Kamala». Ma ci ha pensato la comunità haitiana stessa a reagire, denunciando Vance e lo stesso Trump. Ben sapendo, come riconosce l’avvocato Subodh Chandra che rappresenta i ventimila immigrati offesi dai deliri di Vance, che «se non si fosse trattato di quei due, chiunque altro a quest’ora sarebbe stato arrestato ». Il nostro viaggio era iniziato in Pennsylvania, che sebbene geograficamente non appartenga al Midwest rimane un cruciale Swing State.
La prima tappa è stata Bethlehem. Dove ritroviamo una vecchia conoscenza.
«Ancora tu?» Lo sguardo sornione di Clarence Jordan è già la risposta alla mia domanda. «Non chiedermi chi vince, perché non lo so. Chiedimi chi perde». Se ci guardiamo attorno qui a Bethlehem, nel cuore ferroso e da tempo arrugginito di quella che fu la gloriosa “Rust Belt” (la cintura di ruggine), verrebbe da rispondere: tutti. Eppure è proprio qui, tra Ohio e Pennsylvania che si gioca la corsa alla Casa Bianca, qui che si agguanta o si perde il tesoretto rappresentato da quei 36 grandi elettori (19 per la Pennsylvania, 17 per l’Ohio) da sempre decisivi per l’elezione. Clarence, un ex Marine ora in dorata quiescenza, è a suo modo un mistico. «Le chiavi della Casa Bianca sono nascoste qui, da sempre. Lo sapevi che Eleonora Duse è morta a Pittsburgh dopo la sua ultima rappresentazione teatrale?». Vagoliamo per la vasta landa in cui nel 1681 il quacchero Arthur Penn aveva ottenuto dalla Corona britannica il permesso di colonizzare quella regione per ricoverarvi gli scomodi puritani che l’Inghilterra di Carlo II non poteva più sopportare. Sbarchiamo a Pittsburgh, trecentomila abitanti di cui il 66% bianchi e il 23% neri, città dei “ robber barrons”, i baroni dell’acciaio e del carbone, padroni di quell’universo di ferro che è stata la sua ricchezza e la sua rovina, e che ora ostenta una scintillante riconversione tecnologica sperando che ci si dimentichi dello straziante panorama di ferraglia e di miseria che punteggia quasi ogni contea. La posta in gioco è così alta che i donatori non hanno badato a spese. Come Timothy Mellon, ottantaduenne nipote del fondatore dell’omonima dinastia, che a Donald Trump ha garantito una provvigione di 165 milioni di dollari. Anche il secondo, il terzo e il quarto dei grandi donatori sono repubblicani.
«È facile perdere le elezioni in Pennsylvania – mi spiegano i gentili colleghi del Lehigh Valley News -: molti credono che sia un feudo democratico, ma non è poi così vero. Nelle aree rurali si vota tranquillamente il Grand Old Party: qui Biden vinse per 70 mila voti, Trump batté la Clinton per soli 45 mila. Basta poco». Tutto è in bilico ormai, nella terra promessa del sogno americano.
(1 – continua)