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 2024  ottobre 06 Domenica calendario

Intervista a Massimo Ghini

Il 12 ottobre Massimo Ghini compie 70 anni. Cifra tonda, tipica di bilanci, sorrisi, saggezza, consigli e rilanci.
Il vero bilancio è che in un pranzo infinito (alle 16 ci hanno cacciato dal ristorante) il tempo è stato trattato come uno splendido album Panini dove le istantanee di una vasta esistenza diventano immagini pervase dai colori più imprevedibili. Un pantheon di incontri, emozioni, avventure, follie dove a volte non si capisce neanche il confine tra realtà e set, dove sembra di assistere a una sit-com statunitense modello Seinfeld, con ingressi di guest star ad arricchire la puntata.
E allora è normale sentir nominare Orson Welles, o Michael Douglas; Gregory Peck come Rudolph Nureyev; o le serate a botte di champagne con Volonté, Villaggio e “le due bonone moldave”; Manfredi così come Tognazzi e Mastroianni. “A volte mi dicono che sembro Gianni Minà”.
Il risultato è che questa è la prima puntata dell’intervista a Massimo Ghini. Domenica prossima la seconda.
Come sta?
Felice, arrivo da 145 sold out consecutivi in teatro (Quasi amici con Paolo Ruffini) e questo spettacolo è arrivato in un momento particolare, di mal sopportazione di com’è l’andamento del cinema in Italia; (pausa) eppure ho vissuto l’ultima codina del cinema: ho lavorato con Vittorio Gassman, Nino Manfredi, per conto di Sordi interpretando Alberto Sordi; con Ugo Tognazzi…
Le manca Mastroianni.
Di Marcello ho un ricordo meraviglioso: un giorno mi chiama Roberto Cicutto (produttore cinematografico): “Ti vuole incontrare la Tatò (regista e moglie di Mastroianni); vieni da me?”. Accetto. Arrivo. Lei per niente empatica (si mette in posa con il collo steso e la bocca modello “culo di gallina”). Ci sediamo e subito detta i confini. “Vivo a Parigi e non conosco gli attori italiani”.
Perfetto.
Passano cinque minuti e ripete “non conosco gli attori italiani”; altri cinque e lo precisa per la terza volta.
E lei?
Sono fumantino e rugantino, quindi lievemente scocciato replico: “Allora perché hai voluto incontrami?”. “Il tuo nome me l’ha segnalato Marcello”. Io mi sono tramutato in uomo finito, arreso; poi ho capito che Mastroianni apprezzava il mio passare dalla commedia al dramma fino al palco del Sistina.
La poliedricità è spesso uno svantaggio.
E che non lo so?
Mastroianni lo ha conosciuto?
No, questo è il punto: ma quando è morto la sarta di Marcello mi ha chiamato e regalato due cravatte, una delle due è quella di Oci ciornie; (sorride) ho la giacca di Rossellini.
Pure.
A me le “brigate Rossellini” mi hanno fatto un culo così (e mima ampiamente il gesto).
Per Celluloide dove interpreta proprio Rossellini.
Anno 1996, per questo film hanno assegnato il David a Giancarlo Giannini; (pausa) per carità lui è un grande maestro e Nicoletta Strazzeri (addetto stampa) mi ha imposto il “non ti lamentare!”, però a me niente, mai.
Insomma, queste “brigate”.
Sul set c’erano Carlo Lizzani, amico intimo di Rossellini, Marcella De Marchis, sua prima moglie, e Isabella Rossellini che ancora oggi quando mi incontra mi chiama “papà”; eppure l’accusa è che l’ho reso troppo leggero.
Sacrilegio.
Invece la storia di Rossellini ricorda quella di Giovanni Malagò (presidente del Coni)…
Qui entriamo in zona pericolo.
Giovanni ha iniziato come giovane, bello, alto, ricco e “sparone”, mentre oggi è un manager affidabile. Allo stesso modo Rossellini proveniva da una famiglia di palazzinari, ricchissimi: l’ambasciata degli Stati Uniti a via Veneto l’hanno costruita loro, così come erano proprietari dell’albergo lì davanti.
Altro che ricchi.
Rossellini andava a Cinecittà con la Bugatti; per tutto questo l’intellighenzia mi ha trattato con indifferenza.
Per Christian De Sica Rossellini odiava gli attori. Lei quanti registi “odianti” ha vissuto?
È capitato e ogni volta mi è scattato un senso di pietà; (pausa, ci pensa) da ragazzo il mio soprannome era “Sparami in petto” perché sono sempre pronto alla discussione, ma non sopporto la maleducazione, il volerci far passare da idioti…
Come?
Magari chiedono di girare scene senza alcun senso; (sorride) quando arrivi a un tot di film, certe dinamiche le capisci subito.
Una sua dote sul set.
Che sto sul set, sto con il set: dagli artisti ai tecnici, mantengo rapporti con tutti, vivo quella situazione.
Vari colleghi la definiscono “amico”. A partire da Haber e Ciavarro.
Con Massimo siamo legati da una vita e sono io ad averlo convinto ad affrontare il teatro: ora è un malato di palco, mi chiede sempre “quando ricominciamo”, e insieme abbiamo recitato in un lavoro di Florian Zeller; (cambia tono) sono io ad aver portato in Italia Zeller, ma non me lo riconosce nessuno, e lo stesso Zeller dopo aver visto la rappresentazione mi ha confidato: “Ora ho capito aspetti che neanche io avevo colto”.
Haber.
(Sorride) Alessandro non è una persona facile, ma è il mio testimone di nozze e sono l’unico che ha la sua autorizzazione a imitarlo (inizia a parlare aspirato e ansimando proprio alla Haber).
Conosciuti, come?
Abitavo ancora con i miei, vado in un piccolo teatro per vederlo recitare in un testo della Ginzburg e lo trovo straordinario, fuori dalle regole classiche, fuori dagli atteggiamenti tromboni di molti attori del tempo. Lì ho pensato: o è matto totale o è un genio; (pausa) un po’ matto lo è. A quel punto cerco il suo numero sull’elenco telefonico, lo trovo, lo chiamo e risponde proprio lui: “Ciao, non mi conosci, però volevo dirti che sei straordinario”; a quel punto nella sua follia diventa subito ipergeneroso: “No, io ti conosco, questa voce mi dice qualcosa”. “No, nun te po’ di niente, non sono nessuno”. “Vedrai che lo diventerai… ci vediamo?”. Da lì è nata la nostra amicizia. E poi viveva con un altro uomo meraviglioso: Ennio Fantastichini, che poi ho ritrovato in Accademia.
È stato bocciato.
Insieme a Monica Scattini e Stefano De Sando. Eppure tutti e tre poi abbiamo lavorato.
Chissà la delusione.
Enorme, ed entrare sarebbe stato fondamentale per ottenere un sostegno dalla famiglia: mia madre, adorabile e folle, puntava al posto sicuro, alle certezze; (torna a prima) Monica grazie al padre (Luigi Scattini, regista) viene a sapere che Corrado Augias, al tempo non famoso, stava girando un documentario sui ragazzi che preparano l’esame per l’Accademia: “Vi va di partecipare?”. “Va bene”. Per questo ci ha seguito per un paio di settimane.
È andato in onda?
Certo. Io chiacchierone vengo intervistato a lungo e nel montaggio di Augias, sono affiancato a Vittorio Gassman.
Ma la bocciatura?
Fu politica, mi diedero del fascista.
Com’è possibile?
A quell’epoca era stata istituita la commissione degli studenti, e la nostra colpa fu quella di presentarci in gruppo con Marco Mori come regista.
E allora?
Marco non era schierato politicamente, ed era l’epoca in cui se non eri di sinistra venivi inquadrato come fascio. Quindi bocciati tutti e tre, con uno degli esaminatori, Giorgio Pressburger, che mi chiese “Lei, Ghini, che sport ha praticato?”. Io stupito, cagato sotto e incredulo, anche perché mi ero preparato in maniera ossessiva sul teatro.
Cosa rispose?
Dopo un po’ tentennai: “Pallanuoto…”. “Si vede…”. Fine dell’esame. Quel giorno accanto a me c’era Ennio Fantastichini.
Anche lui sotto esame?
Per la seconda volta, l’anno prima era stato bocciato.
Lei la seconda volta, no?
Troppo orgoglioso; la scuola l’ho poi “conclusa” con Giorgio Strehler a Milano: quando mi ha preso ho telefonato a mia madre: “Massimo com’è andata?”. “Qualcuno si è sbagliato: o Strehler o l’Accademia”. Dentro di me ho spernacchiato l’Accademia.
Com’era Fantastichini?
Un amico vero (apre il cellulare e mostra una foto con lui); insieme abbiamo passato anni meravigliosi (e continua a sfogliare il book fotografico e appaiono i nomi di colleghi di ogni latitudine, compreso Harvey Keitel).
Conosce tutti.
Ho girato 18 film in inglese e con grandi produzioni, poi anche in francese e spagnolo; (torna a Fantastichini) con Ennio ho condiviso un set con Dapporto, Ricky Tognazzi e soprattutto con Volonté…
Volonté era realmente scontroso?
De più! Attenzione: era il maestro, ma un uomo per niente facile nonostante fossimo nelle sue grazie; a volte poteva apparire quasi cattivo, senza esserlo, ma sul set tutti noi eravamo preoccupati di quello che poteva dirci…
Quanto preoccupati.
Con Una storia semplice andiamo a Venezia, per la Mostra. Arriviamo il giorno prima, quando il Festival era cosa seria.
Ora non lo è?
Sembra Miss Italia: ha lo stesso red carpet.
Calpestato da chiunque.
C’è gente che pur di scattarsi una foto alle undici del mattino indossa lo smoking; (pausa) oh, non è invidia: a Venezia ci sono andato già dal mio primo film.
Volonté.
Arriviamo a Venezia e un giornalista dell’Unità ci chiama per due battute sul film, un pezzo piccolo; il giorno dopo Volonté chiama il produttore, Claudio Bonivento, e con tono fermo detta la linea: “Non vengo più, e di’ a quei quattro mentecatti che non si devono azzardare a parlare”. Claudio mi telefona: “Massimo, aiutami, Gian Maria non viene”. “Cla’, tranquillo, altrimenti non ti avrebbe avvertito”.
E…
La mattina dopo squilla il telefono in camera. Era Claudio. “È arrivato”. “Bene, che voi?”. “Vestitevi e scendete a salutarlo”. Accettiamo. E lui ci concede un cenno da lontano. Poi arriva la conferenza stampa e una volta al tavolo lo saluto di nuovo e lui: “Compagno Ghini, il comunismo è morto, lo sai?”. Io non sapevo cosa rispondere e ho sbagliato nel rifugiarmi in una battuta: “Ce ne faremo ‘na ragione”. “Non fare lo stronzo”.
Che fatica.
Poi ci raggiunge Massimo Dapporto e sistema pure lui. “Conoscevo tuo padre, era un grande attore, veramente un grande”. Con il sottinteso: tu sei una merda; infine Ricky Tognazzi, presente con il fratello Gianmarco: “E mammina non è venuta?”.
Una parola buona per tutti.
Entriamo nella sala della conferenza e alla seconda domanda inizia una catilinaria di venti e passa minuti preparata in precedenza, bellissima, e finisce con la frase: “Voi sapete che sono un solitario, non amo far parte di gruppi, poi devo dire la verità: questa è la prima volta che mi trovo bene a lavorare con quei quattro mentecatti”. E indica noi…
E voi?
Felici ed emozionati! Peccato che subito dopo ha aggiunto: “Mi dispiace però che qui non ci sia il più bravo di tutti: Alessandro Haber”. Si alza e se ne va. A quel punto tutti i giornalisti non si filano noi e si mettono a cercare Alessandro Haber, peccato che Haber non c’era mai stato.
Haber impazzito…
Ha iniziato ad ansimare: “Ma lo ha detto?”. “Sì, ma ha aggiunto che gli devi sempre due milioni persi a poker”.
Era vero?
Eccome, e ogni volta che lo beccava non mancava di segnalarglielo. La sera di Venezia poi organizzano una festa nella suite di Volonté: entriamo e viviamo un’altra storia, un altro Gian Maria tra champagne, musica, divertimento. Un delirio. Poi all’improvviso sentiamo bussare alla porta, “ecco i Carabinieri”. E Volonté con la voce carica di diaframma: “Apro io”. Si spalanca la porta e appare Paolo Villaggio con un carrello da room service e con sopra tramezzini, bottiglie di vino e accanto a lui due bonone moldave: “Voglio partecipare anche io alla festa”. Si abbracciano e continua il delirio fino alle sei del mattino.
È un giocatore di poker?
Poco e non sono un granché; le poche volte che ho vinto è solo contro Alessandro Haber.
Invece ha la fama del seduttore.
(ride) E un po’ mi dispiace, perché mi ha creato qualche problema alla carriera.
Come?
Si vive di stereotipi e il ruolo da seduttore era incongruente rispetto a quello che appariva; da ragazzo, per la pallanuoto avevo un fisico alla Maurizio Arena (e apre le braccia come a dettare i confini della sue spalle): sembravo un bagnino con un’espressione del viso non sofferta; poi grazie a Giorgio Capitani e alla fiction della Rai dedicata a papa Giovanni è cambiata la percezione di me, più profonda, nonostante la sinistra non mi volesse in quel ruolo.
Come mai?
La domanda va posta ai dirigenti di quella televisione di sinistra; (pausa) comunque insieme ad Andrea Occhipinti e Fabrizio Bentivoglio venivo inserito tra i belli, per questo emarginato da una sorta di fascismo culturale.
Va bene, comunque lei ha regalato emozioni…
Non lo sto rinnegando, anzi si sa solo un terzo di quello che ho combinato, pure con personaggi internazionali, ma già così mi sono danneggiato; (pausa) la sinistra non aveva un’egemonia culturale, ma un’ipocrisia culturale, senza nulla togliere al valore culturale della sinistra rispetto al nulla della destra.
Sembra un discorso morettiano.
Ci conosciamo da una vita, lo stimo tanto, anche se anni fa abbiamo pubblicamente discusso; ho saputo quello che gli è successo (un infarto, ndr) e gli sono vicino, poi suo figlio e il mio sono amici per la pelle.
E…
Mi inquadro come morettiano della prima ora, ma essere morettiano è diverso dal morettismo. E inoltre non sopporto i seguaci o gli epigoni che lo sono solo per ottenere qualcosa.
Entrambi giocatori di pallanuoto. Vi siete mai scontrati in vasca?
Gli chiesi di entrare nel cast di Palombella rossa, “sì, sì, poi vediamo”, la sua risposta. Mai più sentito e ci sono rimasto male; (ci cacciano dal ristorante, è tardissimo. Ghini preoccupato). Non ho mica finito di raccontare; (in cassa vede sulla parete una foto con Tarantino e lo indica) lui è molto simpatico, con una voce nasale assurda (lo imita, benissimo).
Secondo Alessandro D’Alatri il palco è una droga potentissima.
Per me il teatro è come una spa: lo spettacolo è un esercizio psicofisico incredibile, per tensione, memoria, movimento, il set non è così; il palco è come una partita di calcio, il set è guardare la partita.
Ha nostalgia del campo…
Il calcio è la cosa che mi manca di più.
L’ultima partita.
Un match con la nazionale attori: ho pianto quando un ragazzino mi ha preso cinque metri. Lì ho pensato: “Ma ‘ndò vado?”. E ho deciso di lasciare spazio a chi su quei cinque metri poteva competere; (silenzio e torna a D’Alatri). Ad Alessandro volevo bene e lo stimavo tantissimo, ma non era una persona facile.
Ha recitato nel suo primo film, Americano rosso.
Nasce con me protagonista e in quel periodo stavo vivendo una fase di grandissimi successi, a partire dal ruolo di papa Giovanni in una fiction Rai da 14 milioni e mezzo di spettatori e uno share clamoroso.
Per strada le hanno mai chiesto la benedizione?
Imponevo le mani e le suore mi chiedevano i selfie; (di nuovo D’Alatri) avevamo lo stesso agente, così per il film ci mette insieme, tanto da passare un mese in simbiosi pur di costruire storia e personaggio; poi un giorno scopro che non avevo più il ruolo di protagonista.
Ahi…
Poco tempo prima gli avevo presentato Fabrizio Bentivoglio, mio grande amico, con il quale ho convissuto, e tra i due era nato un feeling assoluto.
Di nuovo: ahi.
Lo dichiaro subito: Fabrizio in quel ruolo è insuperabile; però fuori dalla Rai incontro Alessandro che mi ferma: “Nel film faresti comunque una parte?”. “Se dovessi dare retta al mio istinto ti darei un cazzotto in bocca…”.
E non scherzava.
Sono nato e cresciuto a Trastevere, quella vera, non Trastevere di oggi, e tante ne ho date, altrettante ne ho ricevute; (serio) ad Alessandro alla fine ho detto: “Secondo me sei un talento, anche se mi hai offeso. Accetto”. “Te devo chiede’ scusa?”. “No, basta che me fai dei primi piani belli”. E ci siamo ritrovati come amici e un paio di anni dopo sono pure tornato sul set per lui in Senza pelle, uno dei più bei film della mia carriera.
Film premiato.
(il suo sguardo verso chi scrive recita un lieve “stronzo”) Candidato a qualunque statuetta, solo io sono passato liscio.
La cerimonia dei David un anno l’ha presentata.
(ora lo sguardo è oltre lo “stronzo” di prima) E lì ho pronunciato una battuta che quasi nessuno ha capito, perché chi sta lì o è nervoso per la candidatura o è nervoso perché non è candidato.
Che battuta?
La scenografia prevedeva una serie di David appesi, quindi ho cominciato la serata con la frase: “Buonasera a tutti, e scusate se ogni tanto alzerò la testa: sapete, non ho mai ricevuto una statuetta, non vorrei che questa sera mi finisse in testa”.
Ci è proprio rimasto male.
Una volta sì, oggi no.
Più volte lo avrebbe meritato, magari con Virzì.
E perché, in Compagni di scuola? A me bastava la nomination.
Quel ruolo in Compagni di scuola l’ha segnata per anni.
Carlo Verdone lo ringrazio ancora oggi, mi ha dato la prima grossa notorietà, ma quella parte mi è costata: andavo in giro, entravo nei bar, e c’era sempre qualcuno che mi manifestava il suo fastidio, “lo sa che mi stava veramente sul cazzo?”. E ogni volta ripetevo: “Non sono io! È il personaggio!”.
Nei panni dell’onorevole-violentatore era perfetto.
Mi riconosco il coraggio; per compensarlo poi ho interpretato papa Giovanni; (ci pensa) l’attore deve rischiare, i cinque colonnelli del cinema italiano ce l’hanno insegnato.
Dei cinque fenomeni, a chi si sente più vicino?
Sulla scrivania della vecchia casa avevo la foto di tutti loro (Tognazzi, Manfredi, Mastroianni, Gassman e Sordi), ai quali ho aggiunto Volonté: a ognuno di loro ho cercato di rubare qualcosa.
Manfredi viene descritto come difficile.
Era tostissimo, con lui ti dovevi presentare sul set sempre perfettamente preparato altrimenti erano guai.
Lei secchione.
A volte mi sono trovato in situazioni complicate, magari giravo contemporaneamente su due set.
Cioè?
Ero impegnato in Un tè con Mussolini (di Zeffirelli) e in Una notte per decidere con Sean Penn: un giorno dopo il ciak ho mischiato le battute, avevo completamente perso la cognizione del contesto.
Secondo Verdone la carriera si costruisce sui “no”. Lei è stato accusato di aver detto troppo “sì”.
In effetti è vero. Ma accetto sempre la sfida, non calcolo e alcune volte avrei dovuto rifiutare.
I soldi quanto hanno inciso sulle scelte?
Piuttosto, quanto hanno inciso i figli; (cambia tono) sono contornato da persone ricche di famiglia, alle quali ogni tanto arriva qualche soldo da un’eredità. Io ho quattro figli e due divorzi, e sono felice di quei quattro meravigliosi delinquenti che mi sono costati molto.
Per Amici miei – Come tutto ebbe inizio è stato lapidato.
Da subito, anzi da prima che uscisse. (sorride) Anche da Marco Travaglio, però lui indirettamente mi ha rivolto un grande complimento: mi ha detto che sono stato doppiato in fiorentino, invece ero realmente io, perché per metà sono proprio fiorentino.
Bene, ma il film?
Il cast non doveva essere quello e con altri finanziamenti sarebbe andata in maniera differente.
Torniamo ai colonnelli: ha recitato con Gassman.
Con lui mi sono divertito tanto, e in privato usciva dal solito personaggio austero; magari al ristorante chiedeva sei crème caramel, li piazzava davanti a sé, si alzava, mani dietro i fianchi e con un bel risucchio li mangiava al volo. Finito lo show riprendeva a parlare di teatro.
Il suo primo set.
La neve nel bicchiere. Il regista Florestano Vancini mi aveva visto a teatro impegnato nella Maria Stuarda di Zeffirelli; (sorride) a Roma, per la prima, c’erano tutte le autorità, da Sandro Pertini a Giovanni Spadolini, ma alla fine del secondo atto Valentina Cortese sviene, noi la tiriamo su, così guarda la platea e con tono sofferente biascica poche parole: “Ragazzi, questa sera forse il fisico non mi sostiene. Devo ritirarmi”. E viene portata via nel delirio dei presenti, mentre in coro urlano “guarisci Valentina, guarisci”.
Vi siete fermati?
(stupito) No, siamo andati avanti con un certo ritardo, e il certo ritardo mi ha causato qualche problema con il primo film.
Spieghi.
Le due produzioni, quella cinematografica e quella teatrale, avevano trovato un accordo: finivo lo spettacolo a mezzanotte, correvo alla stazione, prendevo il treno, dormivo qualche ora, arrivavo a Bologna; lì trovavo un autista che mi portava fuori dalla città. Doccia in albergo e subito in provincia di Ferrara. Mi truccavano, andavo in scena, recitavo fino alle quattro del pomeriggio, poi di nuovo a Bologna, aereo, atterravo a Roma e tornavo a teatro con la costumista che mi aspettava fuori dal teatro.
Per quanto tempo?
Quasi tre settimane.
Si è mai arreso?
In una replica teatrale con Gassman i tecnici spostarono una scala: presi una batosta terribile sulla fronte, ma riuscii lo stesso a entrare in scena. Al momento delle mie battute riuscii solo a farfugliare, come fossi un ubriaco. Sono finito in ospedale vestito da Cassio.
Quasi cinquant’anni di carriera: cosa dicono di lei i colleghi?
Non mi posso lamentare, ho solo qualche problema con l’ultima generazione.
I 30-40enni?
Non ho mai avvertito una forma di rispetto.
Tre istantanee della sua carriera.
Tre sono poche.
Proviamo.
Quando ho debuttato all’Odeon di Parigi; quando mio figlio Leonardo è entrato all’Accademia…
Una rivincita.
Sono andato sotto la sede, l’ho guardato e poi non mi sono trattenuto: “Scusa, ma papà deve fare una cosa”. Ho regalato il mio miglior gesto dell’ombrello: “Un Ghini qua ce sta”.
Terza.
Quando sono andato a casa di Zeffirelli per il provino di Maria Stuarda. Suono. Aspetto qualche minuto. Poi vedo salire un uomo con zoccoli e bermuda: era Gregory Peck. Dentro ho trovato altri personaggi particolari come Nureev o le Kessler e tutti hanno pensato “questo è il nuovo fidanzato di Franco”.
Si è mai trovato in situazioni dubbie?
Vale per le donne come per gli uomini; (sorride) ero fidanzato con la nipote di Zeffirelli e lui ogni tanto mi definiva “la rosa che non colsi”.
Zeffirelli non era molto amato dai suoi colleghi.
(serio, duro) Ai David di Donatello nessuno di questi geni intendeva consegnargli il premio alla carriera, perché di destra. A quel punto ho rotto l’imbarazzo con “ci penso io”.
Follia.
Quando vado in giro per il mondo, Zeffirelli è uno dei pochi conosciuti e amati, l’unico ad aver messo in scena Shakespeare davanti al pubblico inglese, ad aver esportato Eduardo De Filippo. Eppure non ce ne rendiamo conto.
Un grazie, a chi?
A Sabrina Ferilli e Christian De Sica, per me fondamentali; poi a Gabriele Muccino, grazie a lui ho ottenuto l’unica nomination ai David. Infine a Paolo Sorrentino per avermi coinvolto in The New Pope.
Chi è lei?
Uno che ha un difetto: voglio fare tante cose e nella vita non si può.