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 2024  ottobre 06 Domenica calendario

Paolo Di Paolo ricorda Carducci

Mi sono imbattuto in un articolo che il poeta Giovanni Raboni, critico fine e severo, dedicò nel 1985 a Carducci. Esordiva chiedendosi come si potesse riscoprire un poeta ancora così presente e tuttavia così poco amato («l’ultimo suo estimatore davvero autorevole è stato Benedetto Croce»). Il Carducci poeta d’occasione schiaccia gran parte della produzione, e tuttavia – sosteneva Raboni – di versi belli ne ha scritti molti. Si trovano in particolare in quella zona più privata, più intima della sua opera, in quei testi in cui si mostra «dimentico di prerogative e doveri, ossessionato dall’idea della morte, del tempo che fugge, del buco che si spalanca e attende giù nella “terra negra”».
Se avesse posseduto in maggior misura, concludeva Raboni, «il coraggio della propria debolezza», sarebbe stato un poeta più grande. Citava Pianto antico, Nevicata,e con più enfasi Alla stazione in una mattina d’autunno, aggiungendo che non avrebbe sfigurato neiFiori del male di Baudelaire. Nei versi diNevicata, la morte della stessa protagonista diAlla stazione, si fa pretesto per una ricognizione degli amici scomparsi, spiriti la cui voce lo raggiunge da un tempo fuori dal tempo. Le ore scandite dalla torre di piazza Maggiore a Bologna somigliano a sospiri rochi. Dev’essere scattata qui la scintilla che mi portò a scrivere un racconto. Erano i miei primi esperimenti narrativi. Pensai che avrei dovuto spingere l’immaginazione dove l’aveva spinta il Carducci di Nevicata, verso il momento fatale in cui si esce dal mondo. Passai qualche giorno tra biblioteche ed emeroteche, compulsando giornali d’epoca.
Le ultime ore di Carducci – è il febbraio del 1907 – vengono seguite dai quotidiani come l’agonia di un papa. Ho immaginato la neve spessa, mista a fango, sui bordi delle strade. Bologna, l’aria fredda e secca di un inverno ostile. La piccola folla che si è assiepata fuori e aspetta. Il corpo di lui – grigio, smagrito, mai esile come ora. (…) Ho immaginato il respiro che si fa sottile, il volto che ha una scossa. Gli oggetti della sua vita: un ombrello, un orologio da taschino. Il panciotto. L’aria fina di Castagneto. Le lucertole, i biacchi, i falchetti, le cicale delle splendide mattine d’estate in Toscana. San Miniato, il vino, il ponce, i figli e i treni, i libri propri e altrui, le facce di ragazzi di là dalla cattedra. Il mare che spumeggia contro il cielo fosco, nella tempesta che annuncia l’inverno. «Urla e biancheggia il mar».
Ho immaginato i cronisti che già chiamano le redazioni per dettare lo sgomento, l’addio commosso al Poeta della Patria, e l’attrito che fa con l’immagine di lui adolescente, quando ai piedi della torre di Ugolino leggeva Dante e Shakespeare e il mare gli pareva piccolo. La casa di Bolgheri, secondo piano a sinistra.
I cipressi «alti e schietti» sono le sentinelle di un corridoio spaziotemporale che riporta lì, verso quella casa, quel luogo delle origini che si abbandona con il corpo ma non con lo spirito, non con l’immaginazione, non con la memoria. Nell’ode intitolata Davanti San Guido,quei cipressi diventano «cipressetti». E Carducci li interpellacon quel po’ di «coraggio della debolezza» di cui è capace. Li lascia parlare: è l’intuizione, più che fantastica, animista dei primi versi, fra Metamorfosi ovidiane e alberi del paesaggio dantesco.
«I cipressi che a Bólgheri alti e schietti van da San Guido in duplice filar…». L’intuizione è felice e universale: il paesaggio dell’infanzia che ci chiede di tornare. Nel frattempo siamo diventati gli adulti che siamo, schermati dal nostro ruolo, dagli scadenzari, dall’illusione di contare qualcosa. I cipressi invitano il poeta a fermarsi: «Perché fuggi rapido così?». Lui, conuna voce un po’ in maschera, li blandisce e intanto si dà un tono, li chiama «amici d’un tempo migliore», ma nel frattempo si dà untono, sciorina le sue qualità intellettuali: «E so legger di greco e di latino, e scrivo e scrivo, e ho molte altre virtù». Loro non sembrano così colpiti; e anzi gli rimandano indietro un’immagine di lui impietosa, di «pover uom» al fondo triste e segnato dal dolore. «Ben lo sappiamo, e il vento ce lo disse / che rapisce degli uomini i sospir, / come dentro al tuo petto eterne risse / ardon che tu né sai né puoi lenir».
Qui Carducci gioca sul chiaroscuro di un autoritratto per interposta persona, anzi per interposta presenza vegetale. I cipressi della sua infanzia possono mostrargli la verità della sua vita adulta, l’uomo ferito e vulnerabile dietro la cortina degli onoripubblici («via, non fo per dire / ma oggi sono una celebrità»). Con la scusa della bambina di due anni che lo aspetta a casa («la Tittì come una passeretta»), prova a prendere congedo. Ma i cipressi fanno un’ultima domanda, che somiglia a un colpo basso: che vuoi che diciamo a tua nonna, sepolta nel cimitero di Bolgheri?
Ne riappaiono le fattezze, quasi fantasmiche: «Alta, solenne, vestita di nero», l’accento toscano di Versilia – quello che a Carducci bambino arriva alle orecchie mentre lei raccontava «la novella di lei che cerca il suo perduto amor». Una favola antica, che per l’adulto si carica di un segno diverso, dice di un desiderio di felicità impossibile, un compimento sempre rinviato: «sette paia di scarpe ho consumate...», «sette fiasche di lacrime ho colmate...». E poi? E poi la sensazione – netta, quasi feroce – che tutto quel che abbiamo cercato fosse lì, proprio nel punto da cui ci siamo messi in cammino: «sotto questi cipressi, ove non spero, / ove non penso di posarmi più». Il finale è cupo, ultimativo. Ma nel disegno ampio che dal corridoio a cielo aperto fatto di cipressi porta all’immagine di nonna Lucia che racconta una storia, Carducci ha afferrato una verità dell’infanzia di tutti. L’infanzia che ci riconvoca di continuo, un pozzo inesauribile di scoperte e di stati d’animo. Tanto più se vissuta accanto ai vecchi, ai nonni, sembra perpetuare un colore preciso, un colore d’estate immune dai calendari e dalle latitudini.
Nelle pagine di Addio all’estate, un romanzo di Ray Bradbury, grandioso scrittore americano spesso ridotto allo scaffale della fantascienza, c’è una nonna che non si chiama Lucia ma sa intuire il vento che soffia da ovest e lascia lievitare la pasta «come una testa sontuosa». Le avventure dei giorni senza scuola. Il nonno che fuma il sigaro. La pistola giocattolo, gelati così grossi che sembrano non finire mai. Gli scherzi, le corse a perdifiato. Le sassaiole che racconta anche Carducci: «Non son più, cipressetti, un birichino, e sassi in specie non ne tiro più».