la Repubblica, 6 ottobre 2024
Intervista a Luca Ferrari
MILANO – «Già da piccolo volevo costruire qualcosa di grande. A sei anni avevo scritto una specie di libro che descriveva uno Stato immaginario su un’isola in mezzo all’Atlantico. Da perfezionista, mi piaceva l’idea di fare tutto da zero».
Una specie di utopia, Luca Ferrari la sta realizzando davvero, ma in Italia.
Bending Spoons, la startup che ha fondato dieci anni fa insieme ad altri quattro ragazzi e che ora dirige, è un caso più unico che raro: ha sviluppato una serie di app “best seller” mondiali come quella per il fotoritocco Remini, e ora cresce a colpi di acquisizioni illustri: Meetup, StreamYard, Evernote, WeTransfer.
Gli utenti sono centinaia di milioni e il valore della società, che all’ultima misurazione era 2,5 miliardi, cresce mese dopo mese. Ma nella nuova sede di Milano, tra pareti vegetali e stanzette per il pisolino, si capisce che c’è perfino di più: ventenni di mezzo mondo lavorano senza orari fissi o limiti di ferie, con libertà di scegliere se stare a casa o in ufficio.
Ferrari, 39 anni, dice di voler creare «l’azienda migliore del mondo», e qualcuno comincia a crederci.
In che senso migliore del mondo?
«L’espressione definisce il nostro livello di ambizione e la montagna da scalare è talmente alta che i dettagli contano poco. Ritengo importanti due cose. Una è essere un posto in cui il talento sboccia e viene sviluppato a livelli senza precedenti. L’altra è generare ritorni per i nostri azionisti, perché alla fine un’azienda è anche quello: capitali che convergono per ottenere un risultato finanziario».
E i ritorni arrivano. Cosa fa Bending Spoons, spiegato facile?
«Acquisiamo un’azienda che pensiamo possa andare molto meglio di come va, immaginiamo come dovrebbe essere per avere il massimo successo e ci rimbocchiamo le maniche per realizzarlo».
Una macchina perfetta per far accelerare imprese già esistenti. È innovazione?
«Secondo me innovazione è realizzare qualcosa di nuovo e che funziona meglio, e noi lo facciamo in vari sensi. La nostra piattaforma di competenze, tecnologie e cultura aziendale è unica. Gli strumenti che abbiamo creato per gestire le aziende, per esempio automatizzando investimenti in marketing da decine di milioni, non li ha nessuno. L’innovazione sui prodotti non è il centro della strategia, ma in molti casi l’abbiamo portata: Remini, l’app che ritocca e genera foto, è il secondo prodotto di IA generativa al mondo dietro ChatGPT, con 100 milioni di utenti».
Dopo aver acquisito Evernote o WeTransfer avete tagliato gran parte della forza lavoro. Perché?
«A volte focalizzare gli sforzi e restringere una squadra è quello che serve a un’azienda per essere più efficiente e avere successo. Fare quello che si ritiene giusto anche quando è controverso, impopolare o doloroso, è la cosa più difficile».
La selezione per entrare in Bending Spoons, lunga e difficile, fa tremare ogni giovane informatico italiano. Che persone cercate?
«La difficoltà sta più nel grado di competizione, per ogni posto che offriamo ci sono due o tremila candidature da tutto il mondo.
Cerchiamo quello che non si può insegnare: l’abilità di apprendere veloci, responsabilità, ambizione, una certa umiltà che vuol dire essere ricettivi alle critiche costruttive. Euna grande propensione al lavoro di squadra, che qui è più importante dell’individuo».
E cosa offrite?
«Le nostre retribuzioni sono il doppio dei livelli italiani, alte anche per quelli inglesi, non è inusuale guadagnare tra i 100 mila e i 200 milaeuro dopo pochi anni. Ma quello che conta davvero e ci distingue da tutti è la densità estrema di talento. Un po’ come un calciatore che va al Real, ti trovi a lavorare con colleghi pazzeschi, e questo ti insegna e ti motiva tantissimo. Un’altra cosa unica è lo spazio per guadagnarsiresponsabilità: il nostro capo della tecnologia è con noi da sei anni e ne ha 30, guida 300 ingegneri».
Perché in Italia è così difficile costruire questo circolo virtuoso in cui un’impresa cresce insieme ai suoi dipendenti?
«Non abbiamo una culturaimprenditoriale eccellente, a volte i nostri manager sono un po’ miopi, ottimizzano il centimetro invece di guardare al chilometro. Dall’altro lato abbiamo una cultura del posto fisso che non aiuta, in cui si ha l’aspettativa di lavorare nella stessa azienda per la vita. Questo mette tutti sulla difensiva. Aggiungo: noi possiamo remunerare bene perché abbiamo identificato una strategia efficace e l’abbiamo implementata bene, così il valore che crea ogni lavoratore è alto. Se quel valore non c’è, anche volendo, le retribuzioni non si possono alzare».
Tanti imprenditori digitali dicono che in Italia c’è troppa invidia per il successo altrui. Condivide?
«A volte sì. Negli Stati Uniti quando qualcuno ha fatto bene ci si complimenta, qui si parte dicendo che di sicuro c’è del marcio. Nello sport idolatriamo i nostri campioni anche più degli americani, mentre c’è un fastidio per chi fa bene nel business, nonostante aziende produttive e profittevoli siano un volano di prosperità per tutti».
L’Europa e l’Italia sono in declino, come sostiene Mario Draghi?
«Non so se in declino, di certo hanno perso il treno rispetto ad altri continenti. Forse si può riprendere, ma occorre sterzare verso una politica di libero mercato quasi radicale, come e più degli Stati Uniti, e rimuovere regole a tappeto lasciando libertà alle aziende. A livello burocrazia e norme in Italia è davvero dura, più che in quasi tutti gli altri Paesi».
La sua vita come è cambiata rispetto a dieci anni fa, ora che guida un’azienda con 800 dipendenti?
«Molte cose sono uguali, dedico ancora al lavoro quasi tutte le ore di veglia, oltre dieci al giorno sette giorni su sette, ma sono diventato più disciplinato nell’usare il tempo. Ho un piano per tutti i giorni della settimana che cerco di seguire religiosamente. Significa anche smettere al momento fissato. Una volta il mio istinto era buttare il cuore oltre l’ostacolo e fare notte, ora mi fermo, ceno, leggo, difendo le mie sette otto ore di sonno».
Un libro che l’ha influenzata?
«L’Universo matematico di Max Tegmark. Spiega che tutto il mondo, compresa la nostra percezione, è la manifestazione di una serie di equazioni matematiche».
Non l’utopia di un bambino di sei anni.
«Anche quella».