Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  ottobre 05 Sabato calendario

I tormenti della giovane Elly

Conte le ha tolto da sotto i piedi quel tappeto rosso che Schlein pensava di percorrere fino alle Politiche.
Perché la segretaria del Pd vede nella sequenza delle elezioni regionali il viatico che potrebbe condurla a Palazzo Chigi. Solo che il capo del Movimento è sceso (per ora) dal taxi, cioè da quel campo largo su cui tutte le forze di opposizione dovrebbero montare se davvero ambiscono a battere Meloni. Insomma Conte sta scombinando i piani di Schlein. E lei, sebbene sia in difficoltà, si trattiene dal denunciare in pubblico «la violazione dei patti» e «il tradimento» del leader Cinque Stelle. C’è più di un motivo se ha scelto di non replicare, e poco le importa sapere che tra i parlamentari del Pd è stata ribattezzata «Elly l’opossum», l’animaletto che quando viene attaccato finge di esser morto.
A parte il fatto che è una tattica già adottata da illustri suoi predecessori alla guida del partito, se Schlein evita la polemica è per una ragione contingente e per un’altra di prospettiva, assai più importante. Nell’immediato deve salvaguardare l’apparentamento con M5S in Liguria, dove la sfida con il centrodestra si è complicata, perché lo scontro tra alleati ha prodotto un danno mediatico e politico. «Ci siamo messi a discutere delle nostre debolezze nazionali e abbiamo fatto passare sotto silenzio le loro debolezze locali», ha commentato nei suoi colloqui il candidato del centrosinistra Orlando: «Vi siete accorti che il caso Toti è scomparso dal dibattito?». E giù imprecazioni alla lettura dei sondaggi.
Conte e Renzi sono (a oggi) le tessere incomponibili del mosaico di Schlein, e insieme gli specchi in cui la leader del Pd vede riflessa la sua doppia immagine: movimentista di natura e governista per necessità di ruolo. E mentre ambisce legittimamente a diventare premier, deve guardarsi dal fiorire di esperimenti correntizi con cui i compagni di partito che l’hanno appoggiata alla segreteria vogliono abbracciarla fino a soffocarla. Lei ha provato a bloccarli: «Niente gruppi interni in mio nome». Ma loro vanno avanti e sono di provenienza talmente eterogenea che – sospira un autorevole dirigente – «mi sembra di rivedere la gloriosa corrente dorotea della Dc». E sembra di rivedere il solito film, anche se – a sentire i parlamentari dem – «nessuno parla perché tutti sanno che le liste la prossima volta le farà lei».
Se è questa la situazione, e se il campo largo al momento non è nemmeno una finzione, come mai Schlein non reagisce? La spiegazione va cercata in un concetto che la segretaria ripete quando viene interpellata su Conte: «Sì vabbè, ma dove va? L’alleanza è inevitabile. Sarà necessitata». Certo, in prospettiva il Pd – come partito coalizionale – corre il rischio di un’emorragia di consensi a vantaggio degli alleati. E certo, il capo dei Cinque Stelle per contendere la guida del rassemblement potrebbe trovare sponda nei Verdi e nella Sinistra. Tutte incognite, variabili da calcolare. Ma al dunque c’è un supremo interesse che imporrà l’unità delle forze di opposizione: il prossimo Parlamento eleggerà il futuro capo dello Stato. 
Appena si cita il Quirinale nel Pd scatta il richiamo della foresta, e anche chi metterebbe sotto Conte sulle strisce pedonali ha un sussulto. E istintivamente dice: «In vista di quel passaggio sarà impossibile non fare l’alleanza». È vero, mancano più di quattro anni alla corsa per il Colle. Ma è altrettanto vero che – quando si andrà al voto – senza campo largo il centrodestra non avrebbe rivali. E a quel punto potrebbe rompere l’ultimo tetto di cristallo, conquistando per la prima volta nella storia la presidenza della Repubblica. Un’eventualità sconcertante per il Pd, che farà di tutto e concederà di tutto – ammette un esponente del partito – «pur di scegliere o condizionare la scelta del successore di Mattarella». E poco importa se Conte, conscio della posta, d’ora in avanti giocherà al rilancio. Più delle divergenze programmatiche, più delle diversità politiche, più delle ostilità personali, «l’alleanza sarà necessitata».