Corriere della Sera, 5 ottobre 2024
Le nostre fragilità
L’anniversario del 7 ottobre vede Israele all’offensiva, i popoli della regione stremati da un anno di guerra, e l’Occidente – cioè noi – mai così debole e incapace di iniziativa politica.
Chi ha pensato e commesso l’orrendo crimine del 7 ottobre aveva due obiettivi: accendere una rivolta in Cisgiordania e prendere il potere anche lì; e provocare una reazione talmente dura da isolare Israele nel mondo, sia tra i leader politici, sia nelle opinioni pubbliche. Il primo obiettivo è fallito: anche in Cisgiordania è scorso molto sangue, però Hamas non ha preso il potere, anzi ha subìto duri colpi a Gaza, dove si è fatta scudo dei civili; quasi 50 mila morti nei bombardamenti israeliani, tra cui troppi bambini, sono un tributo di sangue devastante. Il secondo obiettivo è riuscito. Il durissimo discorso di Netanyahu all’Onu, in una sala che si andava svuotando, ha fotografato una situazione in cui al successo militare della decapitazione di Hezbollah si accompagna l’isolamento politico. Nelle opinioni pubbliche delle democrazie occidentali la causa di Israele non è mai stata così impopolare. E anche la causa ucraina comincia a vacillare, di fronte all’obiezione che cresce, a destra come a sinistra: perché non accontentare Putin e chiuderla qui?
Il punto è che, in un tornante della storia come quello che stiamo vivendo, i governi democratici non sono mai stati tanto fragili e impotenti.
L’ America è appesa al verdetto del 5 novembre, polarizzata come non mai, spaccata in due metà pressoché equivalenti. I democratici avranno più voti popolari – Hillary ne prese tre milioni e mezzo in più di Trump —, ma rischiano di perdere la Casa Bianca per poche migliaia di voti in tre Stati in bilico. E già sappiamo che difficilmente lo stallo finirà il 6 novembre: se Trump perde, non riconoscerà la sconfitta; se vince, dovrà attendere per insediarsi due mesi e mezzo, che non saranno né sereni né produttivi. Già ora il segretario di Stato Blinken nei suoi andirivieni in Medio Oriente non ha ottenuto molto più di nulla; figurarsi se si ritrovasse a rappresentare un’amministrazione sconfitta.
In Francia si è consumata la settimana di passione di Emmanuel Macron. La sua storia politica potrà continuare per i due anni e mezzo di mandato che gli restano; ma nella realtà è già finita. Il presidente ha salvato la ghirba al secondo turno delle elezioni legislative alleandosi di fatto con la sinistra; e poi ha fatto un governo con la destra, appeso alla benevolenza della sua grande nemica Marine Le Pen. Ovviamente la responsabilità è anche dei socialisti, che almeno per ora non sono riusciti ad affrancarsi dal tribuno Mélenchon. Resta il fatto che la prossima volta sarà molto difficile chiamare il popolo alle urne per sbarrare il passo al «fascismo che avanza». Vedremo adesso se l’establishment francese troverà un nuovo Macron, o è rassegnato alla vittoria della Le Pen e alla fine dell’Europa.
A Bruxelles la commissione di Ursula von der Leyen non ha avuto certo una partenza brillante: pare un’accozzaglia messa su per frenare l’ascesa dell’estrema destra, che governa a Budapest, a Vienna è il primo partito, cresce in tutti i Laender tedeschi. Paradossalmente, il vero punto debole dell’Europa è il Paese che ne sembrava la guida inscalfibile: la Germania. Il cancelliere Scholz è considerato un disastro dal suo stesso partito. L’Spd sta pensando di sostituirlo in vista delle elezioni del prossimo anno, che saranno vinte da una Cdu molto diversa da quella della Merkel, meno disposta al debito comune, alla solidarietà europea, alla costruzione dell’Unione. E i sovranisti al potere a Berlino sono un bel guaio per i Paesi più deboli, a cominciare dal nostro.
Se a questo si aggiunge il socialista Sánchez, che governa la Spagna con un voto di maggioranza, e il laburista Starmer, che dopo nove settimane e mezza è già tra i premier più impopolari della storia del Regno Unito, ci si rende conto che le leadership politiche non sono mai state tanto deboli.
Siamo arrivati a pensare che essere una democrazia sia uno svantaggio. Che le autocrazie funzionino in modo più efficace e rispecchino meglio la volontà del popolo. Ovviamente si tratta di un auto-inganno. Con tutti i loro evidenti limiti, non è mai accaduto che una democrazia scatenasse la guerra contro un’altra democrazia. Ma questo tendiamo a dimenticarlo. Mentre, per la prima volta nella storia, il tabù nucleare viene violato dal Cremlino, che minaccia apertamente di usare l’atomica, e irriso dal vero capo della nuova destra globale, Elon Musk, che «intervistando» sul suo social network il suo candidato Trump arriva a dire: «Hiroshima e Nagasaki? Non dobbiamo drammatizzare, adesso ci sono di nuovo delle città». La Bomba? Che sarà mai.
Se questo è il livello delle nuove élites, l’Occidente non è messo benissimo. Però è l’unico Occidente che abbiamo. È la nostra parte di mondo. Resta la migliore in cui vivere. Ma se non si dà gli strumenti per prendere decisioni, affrontare i problemi delle persone e intervenire nelle crisi internazionali, la democrazia stessa è in pericolo. Non cadrà rovinosamente; si affloscerà su se stessa, svuotata dal cinismo e dalla paura.