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 2024  ottobre 04 Venerdì calendario

L’unica volta che sono riuscita a farmi licenziare

Lavoro da trent’anni, contando i lavori veri e non, chessò, quando al liceo facevo la babysitter, e l’unica volta che mi hanno assunta sono riuscita a farmi licenziare. È una storia piena di dettagli esilaranti, da quando mi assunsero per risparmiare (scrivevo talmente tanto che gli conveniva uno stipendio, seppur con cuneo fiscale e altre amenità, rispetto a pagarmi cinquanta e più articoli al mese) a quando fecero fare a un tapino cinquecento chilometri per licenziarmi.
Il direttore di quel giornale, infatti, faceva sembrare Don Abbondio uno col coraggio di Giovanna D’Arco e, quando decise che non mi voleva più lì, si chiuse nella sua stanza e non ne uscì per giorni, finché qualcuno non provvide a dirmi per suo conto che me ne dovevo andare. Venne il tapino dall’ufficio di Milano e mi disse che, poiché il licenziamento era un’esperienza molto traumatica, se preferivo potevo firmare una lettera di dimissioni e potevamo dire che me n’ero andata io.
Non sapeva, il tapino, che io mai avevo lasciato nessuno, né fidanzati né pagatori di fatture: io, finché non mi cacciano a calci, non me ne vado (in realtà nel 1997 presentai una lettera di dimissioni al conduttore d’un programma televisivo, ma solo perché sapevo che sarebbe stata respinta: credo che quello che respinse quelle dimissioni stia ancora ridendo).
All’epoca mi sembrò ridicolo, lo scrupolo del tizio venuto da Milano a propormi di far finta che li avessi lasciati io, ma nei diciott’anni trascorsi da quel giorno ho avuto modo di capire la sua cautela: la zoologia vuole studiarmi, sono l’unica che è mai riuscita a farsi licenziare da un giornale italiano. Giornale che peraltro era convinto che avrei fatto causa e l’avrei vinta facendomi riassumere (uomini: non capiscono mai quando una s’è accuratamente fatta lasciare).
Accade infatti che, a dispetto di saggistica sullo stress performativo, discussioni sullo stress performativo, articoli sullo stress performativo, noialtri si viva in una repubblica fondata sul minimo indispensabile: già se ti presenti in ufficio si ritiene che tu abbia fatto più del tuo dovere. Se, poi, qualcuno prova a licenziarti e tu vai al tribunale del lavoro, quello ti dà comunque ragione: se timbri in mutande, se hai presentato certificati falsi, se in ufficio non sanno che faccia tu abbia, non ti possono comunque licenziare. All’estremo opposto c’è il bracciante senza diritti scaricato per strada con un braccio amputato, ma di quella morte bestiale ci dimentichiamo presto, perché noi non viviamo in quel mondo lì.
Noi viviamo nel mondo in cui se all’asilo nostro figlio vomita ce ne andiamo dall’ufficio a metà giornata, nell’ecosistema in cui i giornalisti si lamentano che gli orari dei quotidiani siano d’ostacolo all’aperitivo con gli amici, e nell’epoca in cui tutto è trauma (epoca perfetta per il direttore che non può sottoporsi allo stress d’incrociare la tizia che vuole licenziare), e quindi abbiamo conversazioni che avrebbero senso se vivessimo negli Stati Uniti o in Giappone, mentre viviamo – mi ripeto, lo so – in una repubblica fondata sul fare il minimo indispensabile, se hai avuto la botta di culo di non nascere bracciante immigrato.
La settimana scorsa c’era su tutti i giornali la storia di un tizio al quale, in tre gradi di giudizio, è stato confermato che il suo licenziamento va invalidato, e gli vanno pure dati gli stipendi che ha perso negli anni di udienze, perché che colpa ne ha lui se i certificati medici che ha presentato per giustificare la sua assenza erano falsi: mica è medico, lui.
La ragione fornita dalle cronache era che è il datore di lavoro a dover dimostrare che il licenziato sapesse che i certificati presentati erano falsi, e la storia appare lunare: non è che un medico d’imperio ti faccia dei certificati senza che tu sia malato (in questo caso la falsa malattia sarebbe stata del figlio), sarai tu che hai dichiarato dei falsi sintomi per te o per la prole, è ovvio che tu sapessi, cosa diavolo c’è da dimostrare?
Mi è venuto il sospetto che dalle cronache manchi un pezzo che mi appare piuttosto ovvio nella drammaturgia di questa vicenda: la testimonianza del medico. Nessun medico dirà mai che ha rilasciato un certificato falso (cioè: un certificato compilato senza aver verificato lo stato di salute del paziente), perché di carriera ci andrebbe di mezzo la sua, non solo quella del tizio licenziato e poi risarcito.
Il medico sarà Guido Tersilli che, dalla sua terrazza in vestaglia, dice all’infermiera che, a uno dei tremila mutuati che è troppo stanco per visitare ma alle cui provvigioni si guarda bene dal rinunciare, si può dare «un prodotto nuovo: non so bene a che cosa serve, ma male non gli farà. Ho firmato il ricettario, glielo porta mia moglie».
Sì, lo so: ora mi dite che i medici della mutua (che non si chiamano più così perché non vogliono percepirsi Alberto Sordi) mica fanno la ricca vita d’un tempo, sono vessati, sono stremati, subiscono il logorio della vita moderna quanto i giornalisti che tardano all’happy hour. Sarà, ma “Il medico della mutua” ha cinquantasei anni, e cinquantasei anni dopo le ricette a me – come a tutti – continua a farle la segretaria.
Il medico che nessuna cronaca del licenziato risarcito cita avrà detto che il bambino stava male davvero, non per salvare il lavoro del tizio in causa ma per salvare il proprio, e quindi per questo il licenziamento sarà stato considerato privo di giusta causa.
La giusta causa mi ricorda sempre le conversazioni sul ghosting: ma, se uno non ti vuole più tra i coglioni o perché non ti ama più o perché non ti considera indispensabile alla sua azienda, come si fa a essere così poco dignitosi da chiedere spiegazioni o da fargli causa? Possibile che non abbiamo imparato niente da Raffaella Carrà, «trovi un altro più bello, che problemi non ha»?
Sì, lo so che ora mi diranno che io non ho mai lavorato un giorno in vita mia (il che non è tecnicamente neppure falso: ho trovato il modo di farmi pagare per pensare cose che penserei comunque, leggere cose che leggerei comunque, vedere cose che vedrei comunque, dire cose che direi comunque; forse devo metter su un corso in cui v’insegno a procurarvi una vita retribuita).
Mi diranno che non capisco i problemi veri del liberismo, dello sfruttamento, di quello schiavismo che sono le giornate lavorative di otto ore (la miniera, invero), della cassiera che fa la cassiera pur avendo una laurea in scienze della comunicazione (che ti dà evidentemente diritto a un posto fisso da comunicatrice).
Ogni volta penso a quella canzone che peraltro mi piace molto, “Una vita in vacanza”, e a quel verso sulla vita utopica caratterizzata da «Nessuno che dice: se sbagli, sei fuori», e ogni volta mi vien voglia di citofonare a Lodo Guenzi per chiedergli quale Cassazione mai, in Italia, ti dica «se sbagli, sei fuori». Forse la canzone l’ha scritta mentr’era in gita al tribunale del lavoro di Tokyo.