La Stampa, 4 ottobre 2024
Esiste l’umorismo ebraico?
Ridere non è mai stato facile. Far ridere men che meno. Specialmente in questo periodo. «Se si pensa a quanto la vita sia tragica», ha detto una volta lo scrittore e umorista britannico Howard Jacobson, «ai comici dovrebbero dare un premio, o rinchiuderli tutti». Ci sono tempi e luoghi, poi, nei quali ridere di determinate questioni è diventato ancora meno facile, più divisivo, un po’ più tragico. Questo è un tempo nel quale parlare di ebraismo è – nuovamente – piuttosto complicato. E parlare di umorismo ebraico è forse quasi impossibile, per affinità o contrarietà. Si rischia di essere tacciati di sionismo nel primo caso e di antisemitismo nel secondo.Il romanziere americano Shalom Auslander ha fatto della sua personale vena ironica (ebraica, ma solo per destino, essendosi trovato a nascere in una comunità ultra-ortodossa) un punto di forza: lo stiletto da conficcare nella tragedia per spaccarla in due e svelarne la vena comica; che sia una tragedia condivisa, umana, passata, presente, o del tutto personale – come nel suo ultimo libro: un memoir dal titolo Feh (in uscita in Italia nel febbraio 2025), che in yiddish è un’espressione di disgusto, in cui cerca di liberarsi di una giovinezza violenta, abusata, cruda. Iper-religiosa e per nulla umana. E ci ride sopra.Esiste l’umorismo ebraico?«No».È mai esistito?«No».Vuole spiegare?«Sì. Non mi piacciono le etichette, di nessun tipo. “Ebreo”, “umorista”, “uomo”, “eterosessuale”, non ce n’è una dalla quale mi senta particolarmente definito. Può darsi che io sia semplicemente stanco dell’ossessione per le etichette che sta dilagando negli Stati Uniti ultimamente: la nostra nuova religione nazionale dell’identità il cui comandamento principale è “E non dire niente di sbagliato, altrimenti ne morirai"».È un costrutto, insomma…«Che origini abbia una persona, da dove venga, quale dio preghi o con chi faccia sesso sono gli argomenti meno interessante che esistano e non dicono nulla di nessuno. Mai. È semplicemente noioso, una sovrastruttura inconcepibile. E l’idea che ci siano gruppi autorizzati, o più in gamba di altri, a scherzare su determinati argomenti è una stupidaggine. “Gli ebrei parlano dei problemi con le loro madri”. Perché, i cristiani non ne hanno? Stronzate. I musulmani non ne hanno? Ne ho viste di mamme musulmane e, mi creda, hanno i loro bei limiti».E l’idea degli ebrei che scherzano sulla sofferenza?«Chi non soffre al mondo? Tutti soffriamo. E chi non ci scherza sopra? Alla fin fine questo continuare a pensare che esistano umorismi più o meno adatti a seconda dell’appartenenza non fa che alimentare la convinzione che siamo tutti diversi. E non lo siamo affatto. Forse è l’idea più comica di tutte. Poi c’è quella cosa dell’autocommiserazione».Ecco, parliamone.«Un altro luogo comune attorno al cosiddetto umorismo ebraico è che si fondi sull’autocommiserazione come strumento di autodifesa».Non è così?«Se fosse così non starebbe funzionando. Gli ebrei hanno cominciato a prendersi in giro da soli molto molto tempo fa, e non è che questo li abbia aiutati a fermare l’Inquisizione. Non sono bastate tutte le battute ebraiche del mondo a fermare Hitler. Ma, di nuovo: è veramente una caratteristica ebraica? Tutti i migliori comici, umoristi, scrittori, musicisti si lasciano andare all’autocommiserazione».Forse è una caratteristica degli artisti…«L’arte è questo: autoanalisi, onestà con sé stessi, auto-riflessione. Donald Trump sarebbe un pessimo artista, il peggiore di tutti; sarebbe un artista fallito».Mi ricorda un altro politico del passato…«Hitler è stato l’artista fallito per antonomasia. È frustrante vedere quanto nel nostro sistema sociale la sociopatia sia premiata con il potere – politico, economico, industriale – perché i sociopatici sono incapaci di una vera autoanalisi. Mi piacerebbe fosse il contrario: che fosse premiata la consapevolezza e punita la sociopatia, ma è un sistema che certamente non ha nulla a che vedere con il capitalismo, che invece genera diffidenza e odio».Stiamo vivendo un antisemitismo di ritorno?«Online vedo odio sollevarsi da tutte le parti e rivolgersi a tutti, senza distinzioni. Tutti odiano tutti, ogni gruppo ha un gruppo nemico che vorrebbe vedere scomparire dalla faccia della terra. Poi chiudo il computer, esco di casa e il sole spende, tutti sono amichevoli, cordiali, gentili, vanno d’accordo. Quindi dico: al diavolo internet. Ci distruggerà, se non lo farà prima Elon Musk con le sue mani».Però “ebraico” è tornata una definizione difficile.«Tra qualche mese potrei pentirmi di averlo detto, ma al momento preferisco essere ebreo che islamico o nero. Abbiamo ancora la vita facile rispetto a certi altri gruppi che sono veramente discriminati e trattati con odio».L’umorismo aiuta contro l’odio?«Nemmeno un po’. Ridere allevia, ma non risolve nella pratica».È vero che col tempo si può ridere di qualsiasi cosa?«Qui in America è in corso un complicato dibattito riguardo il fatto di ridere del potere ma non di chi è svantaggiato. “Punching up” e “punching down”. Si può prendere in giro chi è più potente di noi, o in una posizione di forza rispetto a noi, ma non chi è più debole. La verità è che la sola comicità veramente comica è quella che colpisce trasversalmente: che mira allo stesso umorista. Tutto il resto diventa molto noioso molto in fretta».Lei ne sa qualcosa: in Feh ha scritto della sua formazione, non facile riderne«Ho scoperto l’umorismo da bambino, come modo di distrarre la mia famiglia dalla continua violenza domestica. Avevo visto un’imitazione che Dan Aykroyd faceva di Richard Nixon e benché non sapessi chi fosse Nixon avevo capito che faceva ridere. Quindi, quando i miei famigliari cominciavano a litigare al pranzo del sabato, io facevo Nixon. E loro smettevano. E ridevano. Era una magia. Dopo un po’ Nixon cominciò a essere trito per cui presi a fare dei pezzi di Steve Martin. Anche in quel caso non sapevo cosa li facesse ridere, ma funzionava. Fermava il conflitto».Quindi, dopotutto, l’umorismo ha un risvolto pratico…«Forse solo passeggero. Non fa dimenticare la violenza ma può servire a lenirla».Anche quella passata?«Funziona bene con le ferite aperte, non importa quanto vecchie siano».Con l’olocausto? Lei in Prove per un incendio se l’è presa con Anne Frank.«Non me la sono presa con Anne Frank, o con l’olocausto. Non si trattava di ridere di lei o della tragedia. Me la sono presa con chi li usa per il proprio tornaconto. L’utilitarismo mi fa arrabbiare. Pensi a cosa ne è stato della memoria della povera Anne, una forza della natura ridotta a povera martire patetica. Non sarà contenta lassù in paradiso, glielo dico. E ce la farà pagare, mi creda. Anne non si faceva mettere i piedi in testa, e non se li farà mettere da chi ha deciso di sfruttarla per giustificare altre tragedie».Capita spesso, ultimamente…«Non solo ultimamente, pensi alle Crociate e a quanto il cristianesimo stesso marci sulla colpa per giustificare altra colpa. A tal proposito: Brian di Nazaret dei Monty Python non prende in giro Gesù, ma chi lo segue a occhi chiusi e bocca aperta».Come vede il futuro?«Se dovessi dare retta a quello che leggo sul web o ai media, gli ebrei stanno per essere sterminati a colpi di pistola ovunque nel mondo, quindi immagino che sia la fine. Grazie a tutti, è stato divertente, e non dimenticate di lasciare una mancia alla cameriera. E mi raccomando: non una mancia ebraica! Ah! Ah! Ah! BANG!».