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 2024  ottobre 04 Venerdì calendario

Sono passati 100 anni dalla nascita di Rosario Romeo, allievo di Gioacchino Volpe, che studiò Cavour e il Risorgimento

Dopo il 1945 il passato fascista ci ha obbligato a ripensare tutta la nostra storia nel tentativo di cercare quali fossero state le cause della dittatura. Inevitabilmente nell’Italia repubblicana una tale ricerca è divenuta motivo di scontro ideologico e quindi politico tra le diverse interpretazioni in campo. Ciò spiega perché proprio la ricerca storica abbia rappresentato l’ambito degli studi dove si è registrato il più alto tasso di discussioni accanite, anche di polemiche feroci, e perché oggi ancora gli storici si trovino ad avere così ampio spazio sulla scena pubblica del Paese. Tra questi Rosario Romeo fu di certo uno dei più importanti: pari, per il rilievo dello studioso, solo a Renzo De Felice al quale del resto lo legò non a caso una salda amicizia.
Nonostante la sua età – era nato a Giarre (Catania) cento anni fa, l’11 ottobre 1924 – Romeo fece a tempo ad appartenere idealmente a quella generazione di storici – gli Chabod, i Sestan, i Maturi, i Morandi – che si formò alla Scuola di storia moderna e contemporanea diretta nella Roma tra le due guerre da Gioacchino Volpe. Di Volpe, peraltro, Romeo fece in tempo a seguire le lezioni su Werner Sombart alla Sapienza nell’inverno del 1943, prima che le vicende belliche lo costringessero a tornare a Catania, dove si laureò con una tesi brillantissima sul Risorgimento in Sicilia. Tesi che gli valse la segnalazione del suo relatore Valeri a Chabod, il quale si affrettò ad assegnargli una borsa di studio all’Istituto di Studi storici voluto a Napoli da Croce, che gliene aveva affidato la guida. Cominciò da lì, mentre il giovane siciliano diveniva in breve segretario dello stesso Istituto, un’ascesa accademica folgorante che portò Romeo, ad appena 32 anni, a vincere la cattedra all’Università di Messina, da dove nel 1962 si trasferì finalmente a Roma. 
«Non rinnego né pure un’oncia dell’eredità romantica della nazione: intendo l’eredità che fu non solo di Mazzini ma dei moderati italiani e di Cavour». Rosario Romeo avrebbe potuto fare propria dalla prima all’ultima parola questa dichiarazione di fede nell’idea di nazione che si legge in una furente lettera indirizzata nel 1959 da Federico Chabod ad Arnaldo Momigliano, che gli aveva maldestramente e sia pure indirettamente ricordato l’Italia del regime fascista e il magistero in cui egli si era formato. Per la bocca del grande storico valdostano parlava appunto la lontana eredità di Volpe: la costante attenzione alle vicende della nazione italiana, ai momenti della sua nascita e della sua formazione che aveva caratterizzato il lavoro di questi. Ma in Chabod quell’eredità parlava dopo essersi depurata di ogni sottofondo nazionalista per divenire, grazie all’insegnamento crociano, un’idea di nazione rivissuta e ridefinita alla luce della religione della libertà e della grande stagione culturale che ne aveva visto la fioritura nell’Europa del Sette-Ottocento. 
Romeo, come ho detto, condivise interamente una tale ispirazione politico-ideologica di tono liberal-nazionale, necessariamente aperta agli sviluppi democratici imposti dai tempi. In modo più immediato era invece destinata a manifestarsi la lezione volpiana nel suo concreto lavoro di storico, una lezione che del resto egli non si stancò mai di rivendicare anche pubblicamente: ad esempio ogni volta recensendo positivamente quanto Volpe continuava a pubblicare nel dopoguerra ed esaltandone il magistero. Un magistero che nelle ricerche di Romeo era destinato a manifestarsi come un’attenzione che, lungi dal focalizzarsi sull’ambito etico-politico, era costantemente rivolta a cogliere l’intreccio di tale ambito non solo con i fatti economici e con i movimenti sociali, ma con gli universi psicologici, le spinte emotive, le mentalità collettive che in quei movimenti si riflettevano. Tuttavia, pur apprezzandone certi risultati, egli conservò sempre una non celata diffidenza per la scuola delle «Annales» sembrandogli che il troppo intenso rapporto di questa con le scienze sociali rischiasse di allontanarla dal terreno proprio della storia. 
In quale misura le straordinarie capacità del giovane studioso avessero colpito una personalità del calibro di Chabod è testimoniato dal consiglio che questi diede nel 1955 a un’associazione piemontese di affidare proprio a Romeo – a un siciliano! – la biografia di Cavour. Romeo vi lavorò trent’anni con uno scavo archivistico di una vastità sorprendente, e ne uscì quello che può ben dirsi uno dei vertici della storiografia italiana del Novecento: tre volumi per complessive 2.700 pagine in cui la vita di Cavour è collocata sullo sfondo del suo tempo, restituita al lettore in tutta la sua la sua varia e ricchissima complessità. 
Comunque, ben prima che per i lavori di più lunga lena, il vasto pubblico cominciò a conoscere Rosario Romeo per due suoi lunghi saggi comparsi nella seconda metà degli anni Cinquanta su «Nord e Sud», un’importante rivista del meridionalismo democratico, poi raccolti in un volume sotto il titolo oggi ancora notissimo di Risorgimento e capitalismo. In quelle pagine Romeo prendeva di petto la storiografia marxista rapidamente diffusasi nel dopoguerra, contestandone in pieno uno dei capisaldi: vale a dire l’interpretazione del Risorgimento come mancata rivoluzione borghese-democratica. Lo faceva però su un terreno quanto mai cruciale per i suoi avversari, quello economico. Sostenendo cioè, detto in poche parole, che se per ottenere la partecipazione delle masse contadine al moto nazionale i democratici mazziniani avessero propugnato e poi realizzato la riforma agraria, ciò non avrebbe in alcun modo favorito lo sviluppo del capitalismo e di una moderna borghesia come invece aveva immaginato Antonio Gramsci. Ma anzi ne avrebbe piuttosto ritardato la crescita e quindi anche la crescita del movimento operaio. Proprio in conseguenza di questi interventi e della vastissima eco da essi suscitata, Romeo sarà indotto a occuparsi in modo più ravvicinato, e per un certo periodo continuo, delle vicende economiche della Penisola, scrivendo tra le altre cose un’importante e per i tempi pionieristica Breve storia della grande industria in Italia (1963).
Ma intanto grazie ai suoi scritti e ai suoi interventi si era fatta evidente – innanzi tutto agli occhi dei suoi colleghi – la personalità dello storico siciliano come quella di un intellettuale decisamente ostile all’indirizzo verso sinistra che sempre più negli anni stava prendendo il clima intellettuale del Paese, e con esso la storiografia. Un indirizzo che Romeo con il suo carattere focoso, avvezzo a dire pane al pane e vino e al vino, cominciò a combattere a viso aperto in una sempre più intensa e aggressiva attività pubblicistica fatta specialmente di recensioni talora feroci, dapprima sul «Corriere della Sera» e poi a partire dal 1974 sulle colonne del «Giornale» di Montanelli. Un’attività per la quale, in un Paese sempre più avvitato in un gorgo di faziosità e agitato dallo scontro settario, era inevitabile pagare un prezzo. E così, ad esempio, quando si trattò di nominare il nuovo direttore della «Rivista Storica Italiana», la più importante del settore, a Romeo – che avrebbe tutte le carte in regole e godeva a quanto pare dell’appoggio oltre che di Chabod, di Cantimori e di Maturi – venne preferito invece Franco Venturi. Il quale non solo aveva un impeccabile pedigree antifascista, ma anche il vantaggio, viene raccontato, di essere gradito a Raffaele Mattioli, il potente capo della Banca Commerciale. Non a caso comunque qualche tempo dopo Leo Valiani scrivendo allo stesso Venturi si troverà a dire «Romeo certo è intelligentissimo ma orientato su un liberalismo affine a quello dell’odierno Malagodi». Che è come dire: possiamo mai fidarci di uno così? 
Per un uomo come Romeo, divenuto ormai simbolo insieme a Renzo De Felice di un pensiero radicalmente ostile al clima del Sessantotto, insegnare in Italia negli anni di piombo divenne sempre più difficile. Fatto segno dentro l’Università alla frequente ostilità anche di colleghi, ripetutamente interrotto dagli studenti durante le lezioni, nel 1977 fu perfino minacciato con una pistola alla tempia entro il recinto della Sapienza. Né in questa atmosfera, a perenne vergogna dell’accademia italiana, il suo opus magnum su Cavour ebbe l’onore di una sola recensione su una qualsiasi tra le più importanti riviste di storia del Paese. 
La scelta di abbandonare l’Università pubblica e di trasferirsi alla Luiss fu a questo punto una scelta obbligata. Romeo ne divenne rettore, ma di lì a poco, grazie soprattutto a Giovanni Spadolini, accettò l’offerta del Partito repubblicano, al quale si era nel frattempo avvicinato, di presentarsi candidato nelle sue liste alle elezioni europee del 1984, riuscendo eletto. Ma dopo appena tre anni un infarto doveva improvvisamente stroncarne la vita nel pieno della maturità.