Corriere della Sera, 4 ottobre 2024
Biografia di Paolo Di Paolo raccontata da lui stesso
Paolo Di Paolo, scrittore, ma anche coordinatore editoriale per Treccani libri, oltre che conduttore radiofonico per Radio3 e collaboratore di alcuni giornali, si è ripreso dal tour Strega con «Romanzo senza umani» (Feltrinelli)?
«Pur sapendo di non correre per la vittoria, ho partecipato allo Strega con convinzione. Ero già stato una prima volta in finale undici anni fa, con Mandami tanta vita. Sono tornato per lucidare il nome sull’insegna».
Ha quasi triplicato le vendite. Una bella lucidatura…
«Lo Strega è il nostro Sanremo. Se hai una buona canzone te la giochi sul palcoscenico più visibile. Un romanzo rischia di chiudere la sua parabola in tre mesi. Grazie allo Strega vive ancora».
Se parliamo di letteratura, sono così importanti le vendite?
«Le classifiche sono una paranoia recente, su cui Arbasino aveva già ironizzato. Sarebbe però ipocrita negare di voler raggiungere un pubblico più ampio».
Nell’ultimo anno ha superato le cento presentazioni. Gli editori si impegnano altrettanto?
«C’è un 5% dei libri su cui la convinzione dell’editore fa la differenza. Il resto dipende da quanto l’autore si fa carico della promozione, anzi della difesa del suo libro».
Ma non stiamo perdendo la decenza?
«Gli scrittori sui social, condannati all’autopromozione, e non mi tiro fuori, non sono sempre un bello spettacolo. Mitomanie, esibizionismi, foto finto-naturali che spero i posteri non avranno mai sottomano».
Cos’è lo stile?
«Un misterioso equilibrio tra le cose che racconto e come le racconto. Nel dibattito pubblico, alcuni scrittori si impiccano su un singolo termine identitario, poi però scrivono pagine di una sciatteria disarmante. In un certo senso, mostrano sfiducia nelle parole. Il romanzo non è morto, ma l’esperienza dello stile è in difficoltà».
Cos’è la letteratura?
«Volendo, un’arte. Questione di parentele impalpabili, di partecipazione a una comunità di spiriti. Oggi invece sembra sempre il primo mattino del mondo. Di fronte a uno dei tanti levigatissimi romanzi americani proposti nella provinciale Italia come un capolavoro, Baricco ebbe il coraggio di dire: è il prodotto di un’industria, sembra il frutto di una ventina di editing».
C’è un canone imprescindibile di letture?
«Uno come Moravia e uno scrittore nato quarant’anni dopo avevano lo stesso bagaglio preliminare di classici digeriti. Un musicista ventenne passa ancora per forza da Chopin. E uno scrittore?»
Eppure non si fa che parlare di libri.
«C’è differenza fra parlare di libri e parlare di letteratura. Trovare qualcuno con cui discutere di letteratura mi pare sempre più difficile. Oggi bisogna andare a pranzo, che so, con Trevi, come lui faceva con Citati e Garboli».
Non solo Trevi…
«No, certo. Ma mi trovo spesso a parlare con scrittori più ignoranti in materia letteraria di un qualunque lettore “forte” che incontri a una presentazione. Spesso c’è chi se ne esce dicendo che Proust o Flaubert sono “sopravvalutati”. Che tristezza! Non è che Proust deve piacerti per forza, ma tra l’elitarismo e il populismo culturale c’è una prateria di possibilità».
Se li vuole mettere tutti contro?
«No, ma voglio ripetere un’affermazione provocatoria. Ho l’impressione che nel mondo dei libri si respiri una sorta di stanchezza. Anche chi ama tanto i libri si sente soffocato dalla quantità. E lo dico pur contribuendo, vittima e carnefice, a questo stato di cose».
Di chi parla?
«Vedo tra i maggiorenti dell’editoria una certa svogliatezza, un pilota automatico. Un sintomo è l’enfasi nelle bandelle: aggettivi iperbolici come “potente”, “sorprendente”. Anche negli endorsement amicali delle bolle social. Formulario fisso: “Non vedo l’ora che leggiate questo romanzo”. Tanto a lui/lei arriva in omaggio».
Chi salva?
«Tra la gente di editoria che ho conosciuto, mi vengono in mente tre persone in cui ho colto una passione non spenta: Inge Feltrinelli, un lampo di colore, un’onda di positività; Severino Cesari, una passione calma ma intensa, un ascolto reale; Ernesto Ferrero, l’eleganza del pensiero che si incarna nel modo di essere. Mi manca molto».
Gli altri?
«Molti editori non hanno nemmeno più tempo di leggere quello che pubblicano. Colgo anche negli uffici stampa scarsa convinzione, persino legittima. Se il mondo dei libri si è un po’ rotto le scatole dei libri, diventa oggettivamente difficile essere contagiosi».
Veniamo ai suoi rapporti con il Novecento. Partiamo da Antonio Tabucchi.
«L’ho cercato come si fa con le rockstar. Ricordo un pomeriggio a Parigi, avevo 26 anni, lui che mi legge un pezzo di Hannah Arendt su Benjamin. Ero stordito. Un’altra immagine: lui che rilegge per una notte intera le bozze di un libro a cui avevamo lavorato insieme. La mattina lo trovai con la matita dietro l’orecchio come i vecchi macellai di paese. Una lezione implicita di rigore».
Un altro rigoroso che ha frequentato è Nanni Moretti…
«Sono persone convinte che se una cosa puoi farla un po’ meglio, allora la fai un po’ meglio. Posso vantare di avergli fatto allungare una scena del film Mia madre. Solo cinque secondi, però che soddisfazione!»
Dacia Maraini?
«La invitai nel mio liceo. Venne, colpita all’idea che fosse uno studente a cercarla. Poi mi chiese di aiutarla a mettere insieme dei testi per Franca Valeri. All’inizio mi dava del lei, un lei caldo, pieno di rispetto. Di Dacia mi ha sempre colpito la lealtà. Penso sia quel tipo di scrittrice nota internazionalmente che dal suo Paese, sul piano dei canoni e della restituzione, non ha avuto il giusto».
Dov’è il nodo?
«Misoginia. Pregiudizi, schemi. Quanti critici, se sfidati a parlarci di due libri della Maraini degli ultimi vent’anni, saprebbero che dire? Se li leggessero, ne sarebbero sorpresi. Come li sorprenderebbe, che so, Emmaus di Baricco».
C’è una bolla editoriale che non legge i libri di Di Paolo?
«Penso che non esista una sola bolla, ma tante. Anch’io, come molti, sconto qualche pregiudizio. Un giorno forse accoglierò l’idea, che mi ha sempre respinto, di scrivere sotto falso nome».
Le piacerebbe essere Elena Ferrante?
«No, ma potrei utilizzare uno pseudonimo anglofrancese, visto certo provincialismo, e magari trovarmi a sorridere dei complimenti di gente che non mi ha mai letto».
Veniamo ad Antonio Debenedetti e a Claudio Magris. Con entrambi ha lavorato a libri dialogo.
«Frequentarli è stata la mia università alternativa. Ricordo le domeniche in cui Debenedetti mi raccontava di Saba che andava a prenderlo a scuola con un cartoccio di olive e di Fellini che gli parlava di Pascoli. Di Magris ammiro la capacità di restare ancorato a quella che lui chiama la “vita dal basso”, per sfuggire al pericolo dell’endogamia e dell’aridità intellettuale».
Ancora prima, c’è stato Montanelli.
«Pubblicava le mie lettere nella sua rubrica sul Corriere. Sospettò che il quindicenne che si firmava Paolo Di Paolo fosse una burla. Arrivò la sua telefonata; gli dissi che avrei voluto conoscerlo. Mi rispose che i miti è meglio guardarli da lontano. Andai comunque a incontrarlo».
Ci sarà mai un «ultimo libro» nella storia umana?
«In una scena del mio Romanzo senza umani ho immaginato un gruppo di alieni che sbarcano sulla Terra, si trovano di fronte cataste e cataste di libri e scoppiano a piangere. Commozione e disperazione: capiscono che nei libri è nascosto il segreto ineffabile dell’umano. Certo che ci sarà un ultimo libro, quando si esaurirà questa specie, si esaurirà il racconto. Noi siamo tenuti insieme dalle storie che raccontiamo».