Corriere della Sera, 4 ottobre 2024
La guerra che tutti temono ma né Iran né Netanyahu vogliono
La domanda è ovvia: dobbiamo temere un confronto armato tra Iran e Israele? Una guerra regionale che diventi globale e coinvolga anche gli Stati Uniti? Che prescinda dal gioco delle reciproche rappresaglie?
Chiaro che la situazione può sfuggire di mano, ma le parti calcolano i rischi con cura. Anche l’immancabile risposta israeliana verrà calibrata con gli americani.
Per l’Iran, è in gioco la sopravvivenza del regime. Difficilmente uscirebbe indenne, se davvero attaccasse massivamente Israele. Vuole evitare la guerra aperta. Non vede intorno a sé molte solidarietà regionali. Ma non può non reagire al collasso del sistema dei proxy (Hamas, Hezbollah, forse Houthi), che gli aveva risparmiato sin qui il confronto diretto. Deve ristabilire una qualche deterrenza. Senza tuttavia compromettere le chance di una riapertura con l’Occidente che dia sollievo all’economia. Obiettivi contraddittori, difficili da conciliare.
Israele sembra in vantaggio, con un’America debole e i successi riportati sul terreno. Netanyahu scommette sulla vittoria di Trump e allarga i suoi obiettivi: congelamento a Gaza senza un cessate il fuoco formale e dunque prosecuzione dell’occupazione di fatto, messa in sicurezza e rientro degli sfollati a Nord, zona di rispetto nel Libano meridionale, depotenziamento radicale di Hezbollah e degli altri proxy, consolidamento del suo governo reso più forte dal ritorno dell’ex oppositore Saar. Arriverà fino a tentare la soluzione militare con Teheran e al bombardamento dei siti nucleari? Non manca chi lo spinge.
Anche Israele però è alle prese con una sintesi difficile in caso di escalation. La finestra di opportunità potrebbe chiudersi con una presidenza Harris (e non è poi detto che lo stesso Trump sia disponibile ad arrivare fino in fondo), l’asse iraniano con Cina e Russia si rafforzerebbe, la sorte degli ostaggi sarebbe segnata, il terrorismo jihadista tornerebbe a colpire e ce ne sono tutte le avvisaglie.
Soprattutto, più a medio termine, il margine di manovra delle monarchie sunnite moderate – che oggi plaudono per i colpi inferti agli sciiti – potrebbe restringersi. E complicare il ritorno agli accordi di Abramo e di un prossimo assetto regionale di segno positivo per l’Occidente. Con buona pace della condizione dei palestinesi.
Saltare a conclusioni apocalittiche sull’inevitabilità della guerra globale è dunque almeno prematuro. Tanto più che Netanyahu ha anche un’altra opzione con l’Iran: tentare di far implodere il regime, giocando sulle contraddizioni tra i vecchi ayatollah e i giovani pasdaran del potente complesso militare e industriale. Ci sta già provando.