Il Messaggero, 3 ottobre 2024
Biografia di Joan Didion
«A certe latitudini c’è un arco di tempo che precede e segue il solstizio d’estate, poche settimane appena, in cui il crepuscolo diventa lungo e azzurro. Cominci a notarlo quando aprile finisce e inizia maggio, un cambiamento di stagione, non proprio un clima più caldo – niente affatto – eppure all’improvviso l’estate sembra vicina, una possibilità o meglio una promessa. Passi davanti a una vetrina, ti incammini verso Central Park e ti trovi a nuotare nell’azzurro: la luce è azzurra, e nel giro di un’ora questo azzurro si infittisce, diventa più intenso proprio mentre si oscura e sbiadisce, infine si avvicina all’azzurro delle vetrate in una giornata limpida a Chartres. I francesi chiamano questo momento del giorno “l’heure bleue”. Per gli inglesi era “the gloaming”, l’imbrunire. La parola stessa è densa di echi e di riverberi Durante il periodo delle “blue nights” pensi che la fine del giorno non arriverà mai. Quando le notti azzurre volgono al termine (e finiranno, e finiscono), provi un brivido improvviso, un timore di ammalarti, nel momento stesso in cui te ne accorgi: la luce azzurra se ne sta andando, le giornate si son già fatte più corte, l’estate è finita Le notti azzurre sono l’opposto della morte del fulgore, ma ne sono anche l’annuncio».Questo è lo splendente e dolente inizio del libro Blue nights, “Notti azzurre” – nonché “notti tristi” -, di Joan Didion. Un incipit così be llo che io stessa, con mio figlio Lorenzo (che ne ha scritto a sua volta), l’ho amato molto, imparandolo a memoria e citandolo più volte, mentre contemplavamo la luce intensa e avvolgente di alcuni crepuscoli. Per commentare successivamente con malinconia: «Le blue night stanno per finire sono finite». Non siamo certo i soli, ad averne avvertito la suggestione. Poeti, narratori, pittori, intellettuali, fotografi hanno cercato di coglierne l’incanto. Esiste persino un profumo che si chiama L’heure bleue.Pochi, però, hanno saputo descrivere quei momenti come la Didion. Nata a Sacramento nel dicembre 1934 e scomparsa a New York nel dicembre 2021, è stata una saggista, scrittrice e sceneggiatrice americana dalla penna dolorosa, tagliente e immaginifica. Come era lei stessa. L’incipit di Blue Nights pare infatti un dipinto, una pennellata, ma anche un presagio, una premonizione, un avvertimento. Una metafora che rimanda a qualcos’altro. Non a caso. Perché tutto il testo è uno «struggente reportage dal territorio del lutto», come lo ha definito Lidia Ravera, in cui si mescolano i temi della bellezza e del dolore, della vita e della malattia, degli affetti e del lutto. Alla conclusione delle luminose, effimere blue nights, all’avvento delle giornate più corte, del buio, fa da pendant la vita prima piena e di successo (comunque segnata dalla sclerosi multipla), quindi scandita da sofferenze, della scrittrice. La fine delle notti blu è anche la fine dell’esistenza. L’irrompere della morte. Quella, improvvisa e drammatica, del marito di Joan Didion, lo sceneggiatore e scrittore John Gregory Dunne. E l’altra, di poco successiva, dell’adorata, bella, giovane figlia adottiva della coppia, Quintana Ro.È, dunque, Blue nights, il “Diario di un dolore”, per riprendere il titolo di Lewis. Il dolore della perdita e della solitudine, della lacerazione, del disorientamento di chi resta.Si tratta – ma stiamo parlando di anime grandi, capaci di amare e soffrire, e non di quelle grige e vili, la cui memoria è solo “un cimitero abbandonato” – di una ferita non rimarginabile. Di un senso di vuoto con il quale si impara forse a convivere, ma non si supera. C’era la presenza e poi improvvisamente c’è l’assenza. Irrimediabile e non sanabile.Perché «la vita cambia in un istante. Una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita», come racconta ancora la Didion in The year of magical thinking, “L’anno del pensiero magico”. E cambia, quasi sempre, con l’irrompere della sventura, di un accadimento che divide in due, per sempre, l’esistenza. Una faglia che interrompe lo snodarsi consueto dei giorni, subitanea, scavando un abisso fra il “prima” e il “dopo”. Nel caso della scrittrice, la voragine è stata causata dalla improvvisa morte, nel dicembre 2003, del marito. Per infarto, davanti ai suoi occhi. E il testo si intitola così perché per un anno – quello «del pensiero magico» – Joan continua a pensare che tornerà. Per cui riesce a togliere i suoi vestiti dall’armadio ma non le scarpe, altrimenti cosa si metterebbe John, al ritorno a casa? Come potrebbe camminare scalzo? «Il potere che ha il dolore di sconvolgere la mente è stato ampiamente notato», commenta a tal proposito la Didion. Che però era stata definita “un osso duro” persino dai medici arrivati con l’ambulanza. Ma si può essere “un osso duro” ed entrare, per lenire il senso di male, in un universo parallelo, quasi un delirio. «Volevo qualcosa di più che una notte di ricordi e di sospiri. Volevo urlare. Volevo che tornasse», scrive infatti, pensando al marito. Perché «separazione è quanto sappiamo del cielo, e quanto ci basta dell’inferno», come dice Emily Dickinson