Il Messaggero, 3 ottobre 2024
Tel Aviv teme che ai suoi confini si formi un nuovo Stato islamico
Il sangue di Jaffa, i missili iraniani, la complicata incursione in Libano, diversi fronti aperti e un Medio Oriente in bilico. Per Israele, si tratta di giorni difficili. Ed Efraim Inbar, presidente del Jerusalem Institute for Strategy and Security, tra i massimi esperti di sicurezza, strategia militare israeliana e Medio Oriente, non ha dubbi: «Israele vuole finire il lavoro che ha iniziato».Professore, la situazione a nord è più complessa del previsto?«La guerra può essere lunga, il Libano non è mai stato un terreno facile. Israele lo sa, è abituato, e per questo basta vedere i precedenti: le Israel defense forces sono rimaste per molti anni in Libano».Allontanare Hezbollah fino al Litani ha senso? Non può tornare come ha già fatto?«Sì, è per questo che Israele ha avviato questa nuova politica di contenimento. L’obiettivo del governo è cambiare completamente la situazione, assicurandosi che Hezbollah non possa più avere armi e missili a ridosso del confine».Perché è stata rifiutata la tregua in Libano?«L’inviato di Joe Biden, Amos Hocstein, è stato più volte a Beirut e a Tel Aviv. Il punto però è che ha offerto una tregua a Benjamin Netanyahu quando questi si è sentito in grado di vincere. E anche Hezbollah ha frenato sulle trattative».Allora perché Netanyahu non è intervenuto prima?«Non voleva tentare la sorte. A nessun leader piace farlo, e c’erano forti pressioni interne ed esterne. Anche per i rischi economici. Il problema è che così facendo Israele ha tralasciato uno dei suoi pilastri strategici: la prevenzione. Ma ora anche la dottrina militare sta cambiando».In che modo?«A livello tattico con le operazioni preventive. Poi, dal punto di vista strategico, si è capito che la guerra si può combattere su più fronti contemporaneamente, e per questo serve un esercito più ampio. Inoltre, Israele ha iniziato a produrre più armi ed equipaggiamenti per dipendere sempre meno dall’esterno».C’è qualcuno che ha deciso questo cambio di passo?«Non c’è una persona in particolare. E non va dimenticato che l’attuale leadership militare probabilmente dovrà andare via. È parte del fallimento».Di cosa ha paura Israele ai suoi confini?«Israele teme la nascita di una sorta di Stato islamico ai suoi confini. L’ideologia delle organizzazioni terroristiche si fonda sulla distruzione dello Stato ebraico. È un pericolo esistenziale. E Israele non può più essere vulnerabile».Si rischia una guerra diretta con l’Iran?«Di fatto i lanci di missili da parte dell’Iran sono già un confronto diretto. Il problema è che la guerra, per molti, rischia di essere inevitabile soprattutto per un grande nodo: il programma nucleare iraniano. E se Teheran si avvicina alla bomba, Israele non rimarrà a guardare».Tutto dipende dall’atomica?«Teheran non ha interesse a fermare il programma nucleare in questa fase, visto che è la sua assicurazione per evitare qualsiasi tipo di invasione. Nella loro ottica ci sono due esempi: la Corea del Nord non è stata invasa, la Libia di Gheddafi invece è caduta».Cosa può far finire questa guerra?«L’obiettivo di Israele ora è fermare tutti i piani iraniani. In questo momento, l’Iran è vulnerabile. Certo, non collasserà presto perché è un regime e sa come resistere. Ci sono equilibri enormi in gioco. Ma colpire la sua infrastruttura economica può essere una delle chiavi nelle mani di Israele. Al momento l’Idf ha saputo indebolire enormemente Hamas e Hezbollah. Ci sono anche gli Houthi, ma è un problema che riguarda soprattutto i Paesi arabi e gli Stati Uniti».In questo momento com’è il rapporto con Washington?«Sono i maggiori alleati di Israele, ma esistono elementi della politica Usa che suggeriscono un certo distacco. E questo lo si è visto specialmente tra i progressisti. È un tema che può avere un certo peso anche nel prossimo futuro».E con gli Stati arabi invece?«Israele è il loro unico alleato per contrastare l’Iran. Washington vuole disimpegnarsi dal Medio Oriente, quindi rimarrà solo Israele a confrontarsi con Teheran e con i suoi proxy. Ma per mantenere questi rapporti, lo Stato ebraico deve necessariamente mostrarsi forte».