La Stampa, 3 ottobre 2024
Federico Mollicone sull’eutanasia ha cambiato idea
Un enorme arazzo preso in prestito dai depositi degli Uffizi, raffigurante “Noè ubriaco”, è appeso dietro la scrivania del presidente della commissione Cultura alla Camera, Federico Mollicone. «L’ho scelto per la mia passione per il vino», scherza. Indica poi un paio di quadri secenteschi di battaglie campali, avuti dal museo di Capodimonte e, sopra il divano chesterfield, una piccola tela intitolata “La parsimonia”, «perché chi si siede su quel divano solitamente lo fa per chiedere soldi». Piccoli scampoli di bellezza e di potere. Tra i fondatori di Fratelli d’Italia, e prima ancora in Alleanza nazionale, nel Movimento sociale, nel Fronte della gioventù. Una vita a destra, spesso all’opposizione. «Mio padre, Nazzareno, era dirigente dell’Msi, ma non ho iniziato a fare politica solo per tradizione familiare. A 14 anni diedi una mano a Massimo Milani, ora anche lui deputato di FdI, nel corso di una manifestazione sotto la sede della Provincia di Roma dove protestavamo perché si erano rotti i bagni del liceo. Era il 1984 e da lì in poi continuai a dare una mano».In quell’anno arrivò in Parlamento la prima proposta di legge sull’eutanasia. Se lo ricorda?«Ricordo le nostre battaglie quando il dibattito pubblico si accendeva intorno ai casi di Eluana Englaro o Piergiorgio Welby, qualche anno più tardi. Ma siamo sempre rimasti della stessa idea: la sacralità della vita è un principio non negoziabile».Lo condivide?«Lo condivido ancora, ma dal giorno in cui ho avuto un malore qualcosa è cambiato».In Aula alla Camera, il 18 gennaio del 2022.«Eravamo ancora all’opposizione. Una giornata faticosa, tanto che alle 21,30 sedevamo ancora in Aula. Avevo appena finito il mio intervento quando sono collassato. Se ne accorsero Fabio Rampelli e Davide Galantino. Avevo degli spasmi respiratori. Mi portarono in codice rosso al Gemelli, dove arrivai in pre coma».Cosa aveva avuto?«La chiamano sindrome vagale. Un termine che i medici usano in quel 5% di casi in cui non sanno qual è la causa del male. Decisero, per sicurezza, di stabilizzarmi in coma farmacologico. In quelle ore, però, restai sempre cosciente».Cosciente?«Perfettamente lucido. Ascoltavo e capivo tutto quel che succedeva intorno a me, ma ero paralizzato. Non potevo muovere neppure gli occhi. Ero diventato un oggetto dotato di coscienza. Mi sentii completamente impotente. Ero disperato».Il primo pensiero?«"Se sono condannato a restare in queste condizioni, meglio che qualcuno stacchi la spina”. Non volevo diventare un peso, restare attaccato a una macchina. Ma non sapevo di essere stato messo in coma farmacologico, temevo che la cosa non fosse reversibile».Invece il giorno dopo i medici l’hanno risvegliata.«Sono stati bravi e io ho reagito in modo positivo. Mi sono chiesto, però, se ciò che avevo vissuto in quella terribile notte potesse essere considerata vita. Ora capisco che, in certi casi limite, l’eutanasia possa essere un’opzione».Il suo partito, Fratelli d’Italia, ha altre idee.«Razionalmente rimango assolutamente convinto della posizione di FdI: la vita è sacra. Quando fai un percorso comunitario in un partito, l’aspetto personale devi metterlo da parte».Lei è cattolico?«Sì».Praticante?«Sì. E da credente faccio affidamento sulla possibilità dei risvegli dal coma e sull’intervento della divina provvidenza».La divina provvidenza può far poco per chi, ad esempio, è all’ultimo stadio di una grave tetraplegia.«È diverso. Lei si riferisce a malati che possono ancora comunicare, anche se non ritengono dignitosa quel tipo di vita, per il dolore e la mancanza di controllo delle proprie funzioni vitali. Io parlo invece di chi entra in coma e resta in uno stato vegetativo. È su questi casi limite che è cambiata la mia sensibilità».In che modo?«Ho capito che devo ascoltare le ragioni di chi è dall’altra parte e chiede una legge sul fine vita. Faciliterò il dialogo, anche con associazioni come la Luca Coscioni».È iscritto all’associazione Coscioni?«No, perché non approvo il suo approccio. Ma assumerò una posizione dialogante con tutti, anche con Marco Cappato».Cosa gli direbbe?«Ascolterei. Prima pensavo che su questo tema ci fosse una strumentalizzazione politica, ideologica, oggi invece capisco il dolore di chi vive quella situazione e di chi gli sta attorno».Ne ha parlato all’interno del partito?«Ne parlai con Francesco Lollobrigida, che a quel tempo era capogruppo alla Camera. Gli dissi che avevo qualche dubbio e raccontai la disperazione che avevo provato».Cosa le rispose?«Fu comprensivo».Se arrivasse in Aula una legge sul fine vita?«Seguirei le indicazioni del mio partito».FdI è rimasto l’unica forza di maggioranza a non concedere la libertà di coscienza ai suoi parlamentari.«Perché noi cerchiamo di dare ai nostri elettori un punto di riferimento, di coerenza».La Corte costituzionale ha aperto, di fatto, al suicidio assistito.«Noi abbiamo sempre contestato quella sentenza. Per noi la vita va tutelata con ogni mezzo possibile».Ma è d’accordo sulla necessità di una legge?«Certo, auspico che si faccia chiarezza dopo un confronto anche aspro in Parlamento. Lasciare tutto così com’è danneggia sia una parte che l’altra. E adesso capisco che non tutto ciò che viene proposto dall’altra parte è ideologico, e che anche lì possono esserci motivazioni reali, concrete».Prova empatia?«Molto forte. È come se ora parlassi una lingua che prima non parlavo».