La Stampa, 3 ottobre 2024
Con chi sta il mondo arabo
La pretesa di costruire un “nuovo ordine” che ridisegnasse strategicamente la regione rimescolando le alleanze tra i vari attori, Netanyahu la immaginava già da tempo. Il progressivo cambio di priorità degli Stati Uniti in politica estera, preoccupati sempre più di contenere la Cina e di presidiare l’area Asia-Pacifico, aveva già reso chiaro a Israele che gli americani si sarebbero disimpegnati “delegando” maggiormente la risoluzione delle questioni regionali agli alleati locali. Il crescente “complesso di insicurezza” di Israele, causato dalla mancanza delle usuali garanzie di protezione da parte di Washington, e la necessità di immaginare una nuova architettura di sicurezza per la regione, potrebbero aiutarci a comprendere una delle ragioni che hanno portato alla stipula degli Accordi di Abramo nell’agosto del 2020. Un passo storico che, dopo l’Egitto e la Giordania, avrebbe permesso a Netanyahu di normalizzare le relazioni tra Israele e alcuni attori regionali, tra cui gli Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco, Sudan, con la benedizione dell’allora amministrazione Trump, e di costruire nel tempo una barriera di alleati contro l’arcinemico iraniano.Adesso Netanyahu si sta spingendo oltre: con la guerra a Gaza e l’apertura delle ostilità in Libano, il governo di Tel Aviv pare puntare a smantellare una volta per tutte “l’asse della resistenza” a guida iraniana, che fa di Hamas, già enormemente indebolito, ma soprattutto del movimento Hezbollah, a cui sono stati inferti durissimi colpi, i proxy di quella strategia di difesa avanzata costruita nel tempo dalla Repubblica islamica per accerchiare Israele. Un nuovo ordine, appunto, in cui Israele con rinnovata potenza avrebbe annientato i suoi nemici, cambiando gli equilibri di potere nell’area, invertendo, così, la narrazione nazionale di sconfitta e confusione che si è instaurata dopo il 7 ottobre. Se la strategia israeliana, al contrario del suo procedere, appare sempre più chiara, meno lo è il comportamento degli stati arabi della regione. L’aggressività con la quale il governo di Tel Aviv sta perseguendo i suoi obiettivi, lasciandosi alle spalle più di 41.000 morti a Gaza e diversi altri in Libano, costringe alcuni tra i principali attori dell’area all’impossibilità di perseguire la strada precedente tanto quanto prenderne una nuova.L’Arabia Saudita, già a un passo dall’unirsi al consesso di Abramo – congelato poi dai fatti del 7 ottobre –, spinta da una parte dal principe ereditario Muhammad Bin Salman a stringere sempre più i rapporti politici ed economici con Israele, ma frenata dal ruolo storico dei Saud di difensori dei luoghi sacri dell’islam e della causa palestinese, cerca un difficile bilanciamento, affermando, ufficialmente la necessaria creazione di uno stato palestinese quale premessa di qualsivoglia accordo. Il governo saudita ha anche buone ragioni per temere l’escalation delle ostilità regionali che potrebbero minacciare i loro ambiziosi piani di sviluppo con possibili attacchi iraniani nello Stretto di Hormuz e ai propri impianti petroliferi. La Giordania, che condivide un confine caldo con la Cisgiordania e con una maggioranza di popolazione palestinese al suo interno, fatica ora a mantenere i rapporti storici con Israele dopo la normalizzazione del 1994: la monarchia hashemita ha già vissuto in passato un rischio concreto di “regime change” che portò nel 1970 l’allora re Husayn a dare il via al sanguinoso scontro armato, conosciuto come “settembre nero”, tra truppe giordane e i miliziani palestinesi dell’OLP. Il timore che la rabbia popolare contro Israele possa nuovamente mettere a repentaglio la stabilità della monarchia, inchioda il re ad un atteggiamento prudente, con margini molto limitati: «questa guerra non è la nostra guerra», ha dichiarato in queste ore il re Abdallah, mentre le difese aeree intercettavano ieri, nel corso del recente attacco iraniano contro Israele, missili e droni che attraversavano lo spazio aereo giordano. Se Atene piange, Sparta non ride, si direbbe. È l’Egitto a temere maggiormente i rischi della crisi in corso: dal timore che le operazioni militari israeliane possano spingere più di un milione di palestinesi nella penisola del Sinai, alle ripercussioni sulla già precaria economia. Un simile esodo di persone da Gaza, con il rischio di spillover di gruppi estremisti al confine, metterebbe a repentaglio la sicurezza nazionale e trasformerebbe potenzialmente la penisola in un punto di partenza per attacchi palestinesi contro Israele. Una situazione che trascinerebbe pericolosamente il Cairo, suo malgrado, all’interno del conflitto. Nel frattempo, le piazze arabe sono in fibrillazione da mesi, tanto quelle del Cairo, quanto quelle turche di Ankara, da dove il presidente Erdogan tuona contro il governo di Tel Aviv e la sua guerra a Gaza: una disapprovazione che non prevede, tuttavia, nessuna discesa in campo concreta per un paese che è anche parte della NATO. L’insoluta conflittualità tra Israele e l’Iran, con la sua cintura di fuoco dei proxy, ha nel tempo incrementato l’instabilità della regione mediorientale, polarizzandola in alleanze contrapposte e irriducibili. La Siria, devastata da anni di guerra civile, e l’Iraq, mai ripresosi dall’invasione americana del 2003, un tempo paesi pilastri del mondo arabo, sono finiti triturati dalla contrapposizione dell’Iran contro Occidente. Tale precarietà pesa sul sistema internazionale ma ancor prima sugli stessi attori dell’area: un nuovo ordine regionale potrebbe essere accolto con sollievo, anche se ogni azione israeliana contro la Repubblica islamica dell’Iran rischia di coinvolgere direttamente tutti i Paesi arabi con conseguenze imprevedibili.