La Stampa, 3 ottobre 2024
Gli ayatollah sotto assedio
Il comandante dei Pasdaran Ismail Qaani ha ricordano la mano di Qassem Soleimani, ritrovata miracolosamente intatta, con l’anello dal sigillo islamico, dopo che il capo delle forze Al-Quds era stato polverizzato da un drone americano a Baghdad. E il corpo di Hassan Nasrallah, senza ferite, recuperato dal tunnel più profondo del bunker di Beirut, soffocato dai fumi delle esplosioni. «Siamo nella lista», ha ammonito: «Prima o poi toccherà anche a noi». Poi ha mostrato una cartina che indicava come nella collana di un rosario le basi statunitensi, inanellate dal Nord della Siria, giù lungo il corso del Tigri, fino al Golfo, e ancora più in là all’imboccatura dello Stretto di Hormuz, con le fattezze di un cappio che cinge il territorio iraniano: «Dobbiamo spezzare l’assedio». La guida Suprema ha ascoltato lui, come altri. Voci diverse. Il sentiero era stretto, la decisione difficile. La Repubblica islamica, pur fiaccata dalle sanzioni, ha la forza di colpire, di far sentire che è viva. Ma non sa se ha la forza di rompere l’assedio. E se spreca le sue poche risorse senza riuscirci, le mancherà l’ossigeno.Per questo Khamenei ha esitato a lungo. Ieri, ha dichiarato: «Nella nostra regione la causa principale dei problemi, che porta a conflitti, è la presenza di chi afferma di sostenere la pace ovvero gli Usa e alcuni Paesi europei». Da fine luglio, quando ha ricevuto in volto lo schiaffo dell’uccisione a casa sua del leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh. C’era da valutare la portata della rappresaglia. Ma anche capire quanto era profonda la penetrazione del Mossad nei ranghi dell’Asse della resistenza sciita. Sarebbe emerso solo due mesi dopo, con la distruzione dell’intera leadership di Hezbollah. E cioè, totale. A questo punto i Pasdaran gli hanno ricordato un video usato molto spesso dalla propaganda sciita. È un’intervista del generale americano Wesley Clark. Ricorda un colloquio con Paul Wolfowitz, allora vicesegretario di Stato, all’inizio del 2003. «Ma avete deciso di invadere l’Iraq? Ma perché?», spiega di avergli chiesto. E la risposta lo gela: «L’Iraq è solo l’inizio. Abbatteremo, we will take down, sette stati in cinque anni: Libano, Siria, Libia, Somalia, Sudan, e naturalmente, per finire, l’Iran». Il vasto programma è stato realizzato, o quasi. I Pasdaran si sentono i prossimi.Khamenei ne è convinto quanto i Guardiani della rivoluzione, ma ha il problema di non passare alla storia come il distruttore di quello che l’imam Khomeini ha realizzato.Conosce la superiorità aerea di Israele, i suoi caccia invisibili ai radar, le bombe americane capaci di perforare una collina. Israele da sola, figuriamoci se dovesse scendere in campo al suo fianco il poderoso dispositivo americano nella regione, con quasi altrettanti jet da guerra. Per rimediare il defunto Soleimani aveva puntato su due armi. La guerriglia asimmetrica delle milizie arabe sciite, lo sviluppo del programma missilistico. Con risultati notevoli, ma non abbastanza da pareggiare i rapporti di forza, come si è visto in questo disastroso autunno iraniano. La Guida suprema ha quindi soppesato l’alternativa politica. Dettata anche dalla situazione interna, crisi economica, regioni periferiche in ebollizione, esasperazione giovanile. Già a inizio luglio aveva pilotato, tra candidature negate e altre non sostenute, l’ascesa dell’outsider Masoud Pezeshkian a nuovo presidente.Pezeshkian è di origini curdo-azere, parla in maniera fluente sia il curdo che l’azero, oltre al persiano e al turco. La sua ascesa è dovuta in parte anche a questa sua particolarità. Perché Teheran ha messo gli occhi da tempo sul Kurdistan iracheno, la chiave per strappare l’Iraq all’influenza economico-militare degli Stati Uniti. In una visita a metà settembre il leader iraniano ha conversato senza interprete con il presidente della regione autonoma del Kurdistan, Nechirvan Barzani. Che lo ha ricoperto di elogi. «Non saremo mai una minaccia per l’Iran, al contrario proveremo a essere un’opportunità», ha spiegato. E poi ha elogiato «il sacrificio del martire Soleimani». Parole impensabili qualche anno fa. La proposta di Pezeshkian a Khamenei era di rompere l’assedio per via politica, di espellere le residue forze Usa dall’Iraq con accordi economici e diplomatici, e con il grimaldello dei Brics, il blocco antioccidentale a cui si è unito a inizio anno e che potrebbe vedere presto anche l’ingresso di Turchia e Azerbaigian. Con i soldi cinesi, ha spiegato, prendono forma nuove rotte ferroviarie e dell’energia. Baghdad vuole vendere il suo greggio in petroyuan, per aggirare i vincoli occidentali. Pezeshkian ha firmato accordi a Erbil, ma anche con il premier iracheno Mohammed Shia Al-Sudani. Un progetto al lungo respiro, che richiede tempo. Troppo. Quando sono partiti i missili balistici verso Tel Aviv, non è stato neppure avvertito.Con i ranghi infiltrati dall’Intelligence israeliana, con le milizie alleate decapitate una dopo l’altra, la scelta è ormai, agli occhi di Khamenei e del blocco conservatore, tra soffocare in un assedio sempre più stringente o cadere consapevoli nella “trappola”, come l’ha definita lo stesso Pezeshkian. La trappola di una guerra regionale dove, prima o poi, il Pentagono metterà tutto il suo peso sulla bilancia dell’alleato storico, non rinnegabile, lo Stato ebraico. Teheran guarda a Mosca, a Pechino, spera, ma sa che non troverà lo stesso appoggio, Brics o non Brics. Gli ayatollah si sentono soli, in piena sindrome dell’assedio. Vorrebbero reagire e temono l’errore fatale.