Corriere della Sera, 3 ottobre 2024
Biografia di Italo Bocchino, raccontata da lui stesso
Italo Bocchino, dieci anni fuori dai radar e oggi di nuovo in tv come opinionista della destra al governo. Come mai?
«Devo ringraziare due donne: Giorgia Meloni e Lilli Gruber. La prima per aver vinto le elezioni; la seconda per avermi voluto su La7 a Otto e mezzo a commentare questa fase politica».
Secondo alcuni, lei è uno degli interpreti più autentici del melonismo. Secondo altri, come Dagospia, Meloni con lei neanche ci parla.
«Io sono un giornalista indipendente. Non vedrete mai il mio nome tra quelli indicati da Fratelli d’Italia per una qualsiasi carica, che sia in una lista elettorale o in un consiglio di amministrazione».
I suoi rapporti con la presidente del Consiglio?
«Ottimi con lei, ottimi con la sorella Arianna, ottimi con tutti».
Vi sentite?
«La Meloni ha ben altro da fare che parlare con me».
Che cos’ha fatto nei dieci anni in cui, dopo l’inabissamento di Gianfranco Fini, era sparito anche lei?
«Mi sono disintossicato dalla politica».
Facile?
«Il giorno dopo la mancata rielezione in Parlamento, alle elezioni del 2013, decisi di chiudere con la politica attiva. Da lì in poi è stato come entrare in una comunità di recupero, come uscire da una tossicodipendenza: il primo giorno ti chiudi in una stanza, dal secondo inizi a dare le testate contro un muro e poi così, piano piano, finché non mi è passata».
A Italo Bocchino è toccata, in piccolo, la stessa sorte del Noodles interpretato da Robert De Niro in C’era una volta in America. Sul più bello, perché per i tempi della politica i 46 anni sono il picco della carriera, se n’è andato a letto presto. Adesso, che di anni ne ha cinquantasette, è tornato.
Com’era iniziato tutto?
«Col diciotto percento preso dal Fuan (Fronte universitario d’azione nazionale, la cellula universitaria del Movimento Sociale, ndr) all’università di Perugia, seconda metà degli anni Ottanta. Al consiglio d’amministrazione venimmo eletti in tre: Marina Sereni per i comunisti, il giornalista del Tg1 Mario Prignano per Comunione e liberazione, io per il Fuan».
Lei deve molto a Pinuccio Tatarella, che la scoprì.
«Non molto, tutto. Per me era come un padre. E per lui, che non aveva figli, io ero come il figlio. Mi notò proprio da quell’esperienza, a Perugia, che iniziò a monitorare da lontano con una certa curiosità».
Sogni di ragazzo?
«Fare il giornalista al Secolo d’Italia. Il problema è che ci sono arrivato a poco più di vent’anni».
Da Napoli a Perugia, quindi a Roma.
«Vivevo in un monolocale seminterrato a viale Vaticano. Un letto, un cucinino, un bagno piccolo, stop. Poi i letti diventarono due perché con me venne ad abitare Pietrangelo Buttafuoco. Nell’appartamento accanto al nostro viveva una trans; nome d’arte, guardi i segni del destino, Ruby».
Due giovani post-fascisti e una transessuale distanziati da pochi metri quadri, in un seminterrato. Sembra l’inizio di una barzelletta.
«Solo l’inizio? All’epoca, Ruby e tutte le persone che avevano optato per quel determinato tipo di vita si facevano una clientela quasi esclusivamente grazie agli annunci sui giornali locali. Lei pubblicava le inserzioni sul Messaggero e sul Tempo. Tipo “AAA, Ruby, sensualissima transessuale, riceve in viale Vaticano”, numero di telefono, eccetera eccetera... Il cliente prendeva appuntamento, segnava l’indirizzo, arrivava sotto casa. Il problema era che, un po’ perché pervaso da spiriti evidentemente bollentissimi e un po’ perché nell’annuncio c’erano solo l’indirizzo e il telefono, una volta giunto a destinazione questo benedetto futuro amico di Ruby molto spesso non sapeva dove citofonare. In tantissimi, in piena notte, in mezzo a quella confusione di ormoni, cognomi, lettere di scale e numeri di interni, trovavano naturale citofonare “Bocchino”. Di fatto, per parecchie notti, Pietrangelo e io abbiamo svolto funzioni di receptionist per Ruby, indirizzando i clienti alla porta giusta».
Lei fu testimone oculare della nascita del bipolarismo e del centrodestra italiano, di cui Tatarella fu l’ideologo. Come andò?
«Un po’ per caso. Tatarella, da buon pugliese, nei momenti di difficoltà esclamava “’mbruoglio, aiutami!”, “fato, aiutami!”».
In questo caso?
«Elezioni del comune di Roma del 1993, la prima volta che un sindaco veniva scelto direttamente dai cittadini. Lo schema su cui si lavorava, in memoria di un tentativo fatto da don Sturzo alle elezioni di Roma del 1952, era un’alleanza tra i centristi e la destra. Gaetano Rebecchini, che era un’autorità in Vaticano, ci aveva lavorato ed era stato individuato anche un candidato a sindaco che facesse da sintesi, e cioè Rocco Buttiglione... L’operazione però naufragò e da lì si arrivò alla candidatura di Gianfranco Fini. Inizialmente era una candidatura di bandiera; poi, col passare delle settimane, risultò chiaro che sarebbe arrivato a giocarsela al ballottaggio con Francesco Rutelli. Senza questa concatenazione di eventi, Silvio Berlusconi non avrebbe fatto il famoso intervento all’inaugurazione del centro commerciale di Casalecchio di Reno, in cui disse che se fosse stato un elettore di Roma avrebbe votato per Fini. Il bipolarismo e il centrodestra italiano nacquero di fatto là».
In questi giorni esce per Solferino «Perché l’Italia è di destra», sottotitolo Contro le bugie della sinistra. Eppure lei, insieme a Fini e agli altri fuoriusciti dal Pdl, nel 2009 della sinistra italiana era diventato una sorta di beniamino. Come andò?
«Andò che la situazione sfuggì di mano un po’ a tutti. A Berlusconi, certo, ma anche a noi. Le colpe di quella diaspora, lo dico a tanti anni di distanza, sono state di tutti».
Com’era iniziata?
«Con la nascita del Pdl, il partito unico del centrodestra che teneva insieme Forza Italia e Alleanza nazionale. Dopo il voto del 2008, Fini decise di fare il presidente della Camera, invece che il vicepremier e segretario del partito, approfittando del fatto che Berlusconi sarebbe stato a Palazzo Chigi. E così Berlusconi pensò di comandare su tutto e Fini di essere stato defraudato».
Fini, lei e molti altri vi staccaste dal partito ma anche dalla maggioranza, provando a far cadere Berlusconi nel 2009.
«Sul secondo punto ero contrario. Dovevamo fare la terza gamba del centrodestra, non firmare la mozione di sfiducia della sinistra. Ma facevo il capogruppo di Futuro e Libertà e rispettai la scelta fatta dalla maggioranza di noi. La situazione con Berlusconi politicamente si poteva anche ricomporre, fino a un certo punto. Poi alle distanze politiche si aggiunsero i rancori personali, soprattutto da quando Striscia la notizia iniziò a bersagliare la moglie di Fini trasmettendo quei vecchi video che la mostravano con il suo fidanzato precedente, Luciano Gaucci... Comunque, a un certo punto due bambini stavano per fare il miracolo, riportando la pace».
Quali bambini?
«Mia figlia e il figlio di Angelino Alfano, che andavano a scuola assieme. Io e Angelino, l’uno il luogotenente di Fini e l’altro di Berlusconi, abitavamo anche nello stesso palazzo, ai Parioli. A una festa di compleanno di bambini, ci appartammo e ce lo dicemmo apertamente. “C’è qualcosa che possiamo ancora fare per salvare tutto?”».
C’era?
«C’era. E la trovammo con l’aiuto di Gianni Letta, che incontravamo di nascosto in un albergo dei Parioli che lui usava spesso per gli incontri più riservati. Il punto di caduta della trattativa sotterranea, di cui informai Fini, passava per la nascita di un nuovo governo Berlusconi, di cui avrebbe fatto parte come terza componente del centrodestra anche Futuro e libertà».
Lei incontrò direttamente Berlusconi?
«Un giorno mi misero in uno di quei furgoni coperti, senza finestrini dietro, con i quali di solito i supermercati consegnano la spesa a domicilio. Così superai senza essere visto lo sbarramento dei giornalisti che piantonavano Palazzo Grazioli e andai a parlare col Cavaliere».
E poi?
«Era tutto apparecchiato. I ministeri più importanti sarebbero rimasti com’erano ma Berlusconi ci diede quasi carta bianca sull’indicazione dei nostri nomi. Si impuntò, si fa per dire, sul ministero dei Beni culturali. “Quello è di Sandro Bondi, ci tiene e non voglio dargli un dispiacere, vi prego, non chiedetemelo”. Comunque sia, saltò tutto per una fuga di notizie. Fini si ritrovò il piano sui giornali e si chiamò fuori; Berlusconi, col tempo a disposizione che gli era stato dato dal Quirinale, riuscì grazie a Verdini a trovare in Parlamento i voti per sopravvivere ancora».
Lei stava sui giornali anche perché si diceva fosse una sorta di mentore di Mara Carfagna, ministra berlusconiana. Le cose stavano così?
«Bah, sciocchezze su cui la stampa si appassionava all’epoca...».
Che idea si è fatto della casa di Montecarlo?
«Era una cosa gestibilissima. Se Fini avesse saputo che l’aveva comprata il cognato, l’avrebbe detto subito e la cosa sarebbe finita lì».
Secondo lei, lo sapeva?
«Gliel’ho chiesto. Mi ha sempre giurato di no».
Rimpianti per quell’epoca?
«La diaspora della destra mi ha addolorato per tantissimi anni a seguire. Ringrazio anche umanamente Giorgia Meloni per averla ricomposta con la sua vittoria del 2022».
Ricomposta si fa per dire: Berlusconi non c’è più, Fini è fuori dai giochi, lei va solo in tv.
«Non è solo questo. Meloni, dopo essere stata la prima donna a Palazzo Chigi, batterà altri record: il primo governo a finire la legislatura senza crisi o rimpasti, la prima leader a rivincere le elezioni la volta successiva».
Si è sposato due volte. Ed entrambi i matrimoni sono stati attenzionati dalle cronache politiche. Come mai?
«La prima volta perché ho sposato una donna (Gabriella Bontempo, ndr) che veniva dal mondo dei socialisti, aveva decisamente frequentazioni altre rispetto alle mie e quindi al matrimonio si incrociarono universi che iniziarono ad annusarsi senza mai essersi conosciuti prima. L’ultima (con Giuseppina Ricci, ndr) perché era cambiato il vento, c’era la prima donna della nostra storia a Palazzo Chigi. Buttafuoco dice che i miei matrimoni sono eventi da seguire perché mi sposo sempre quando cambia la geopolitica del potere».
È così?
«Sinceramente non lo so. Forse sì».