Corriere della Sera, 3 ottobre 2024
I portuali incrociano le braccia e bloccano mezza America
Lo sciopero dei portuali che blocca da ieri i 36 scali della costa atlantica e del Golfo del Messico – dal Maine fino al Texas, passando per Boston, New York, Filadelfia e New Orleans – rischia di costare molto caro a Kamala Harris, già alle prese col calo dei venti che fino a un mese fa gonfiavano le vele della sua candidatura.
In un Paese nel quale le disuguaglianze crescono e le imprese hanno potuto contare su normative che rendono difficile creare organismi rappresentativi dei lavoratori, le battaglie dei sindacati per recuperare terreno sono state seguite con simpatia da gran parte dell’opinione pubblica. Un clima del quale ha beneficiato il partito democratico grazie a Joe Biden che si è dichiarato il presidente più pro-union della storia americana.
Ma questo sostegno politico, che ha aiutato il personale di molte imprese a far sentire la sua voce e a ottenere salari più alti in anni di elevata inflazione e forte crescita dei profitti aziendali, rischia di diventare una palla al piede ora che 45 mila lavoratori insostituibili e in grado di strangolare l’economia americana entrano in sciopero (il primo dal 1977) a poche settimane dalle elezioni presidenziali: l’Ila, il loro sindacato, ha respinto la proposta di un aumento retributivo del 50 per cento spalmato nei 6 anni di durata del contratto.
L’offerta della Usmx, l’associazione delle aziende portuali, è la più generosa fatta a una categoria di lavoratori. Un anno fa i longshoremen dei porti della West Coast (gli scali sul Pacifico) hanno siglato un contratto con aumenti totali del 32 per cento. Altre aziende sindacalizzate hanno concesso consistenti incrementi delle retribuzioni, ma senza arrivare al 50 per cento offerto ai portuali dell’Atlantico: l’Ila chiede di fermare l’automazione che porta alla sostituzione dei portuali con le macchine e vuole di più, il 77 per cento. E, per ottenerlo, minaccia di fermare i porti per settimane.
Questo sciopero, destinato a bloccare il grosso dell’import-export americano può essere devastante: anche se la gente non ne avvertirà le conseguenze (scaffali vuoti di negozi e supermercati) subito, già costa 4,5 miliardi di dollari al giorno all’economia Usa (calcoli Goldman Sachs). Biden avrebbe la possibilità di farlo rientrare ricorrendo alla legge Taft-Hartley del 1947 che consente all’esecutivo di imporre alle parti di riprendere i negoziati, rinviando di 80 giorni l’astensione dal lavoro.
Ma Biden, che non vuole inimicarsi i sindacati in questo ultimo scorcio della sua presidenza, ha detto che non crede nella validità di questa legge e non la userà. Scommette sulla ragionevolezza dell’Ila il cui capo, Harold Daggett, attaccato dai media della destra (hanno scoperto che l’anno scorso ha incassato stipendi per 900 mila dollari da due sindacati) sembrava voler avanzare una proposta di compromesso (aumenti del 61,5 per cento). Poi, però, pare che l’ipotesi sia rientrata. Kamala non può scavalcare Biden, né vuole probabilmente farlo, da liberal che si colloca alla sua sinistra.
Il prezzo della rinuncia a contrastare la forzatura dell’Ila potrebbe, però, essere alto. Le industrie hanno accumulato scorte di magazzino sufficienti per diverse settimane di produzione, ma la mancanza di prodotti alimentari freschi si farà sentire molto prima. Intanto la destra già accusa Biden di aver dato spazio a eccessi che si stanno ritorcendo contro gli stessi lavoratori. In diverse aziende i dipendenti hanno ottenuto forti aumenti retributivi che, però, sono stati poi seguiti da ondate di licenziamenti. Prossima candidata la Boeing: col personale in sciopero da settimane, ha offerto aumenti del 30 per cento pur essendo in forte perdita. Offerta rifiutata e stop a oltranza.