L’Adige, 3 ottobre 2024
Il film Vermiglio e il difficile futuro della vita in montagna
Vermiglio è il film che ci serve per capire che la montagna non è un luogo romantico, dove la neve fa da sfondo in una cartolina. I masi erano prigioni di povertà che, purtroppo, i trentini in primis si sono dimenticati.Sarà l’emozione di vedere le proprie montagne sul grande schermo. Sarà sentire parlare il proprio dialetto (o lingua) al cinema – qualcuno aveva mai visto un film in un dialetto trentino? Sarà la sorpresa di trovare il padre della propria amica d’infanzia come comparsa. Ma Vermiglio, film candidato dall’Italia nella corsa agli Oscar 2025 e già vincitore del Leone d’Argento a Venezia, è la perfetta sintesi della vera vita di montagna: povera, scarna e isolata. La montagna non è un luogo romantico. La neve non è una cartolina. I masi non sono chalet.Forse serviva proprio il punto di vista della regista Maura Delpero per farci ricordare a noi trentini da dove veniamo. Da un territorio che, fino a pochi decenni fa, vedeva povertà, emigrazione e marginalità. Tutte cose poi ripudiate attraverso l’evoluzione dell’economia: agricoltura, turismo e quelle poche fabbriche (ovviamente sempre meno). E ci si chiede perché la gente scappava dalla montagna. Ma la risposta era più che ovvia: si viveva in otto con due vacche e tre maiali. Si racimolava quello che si poteva raccogliendolo dalla natura avara. E basta. Tutto questo era l’accessibile.Ma ora sembra proprio che i trentini stessi e i loro amministratori non si ricordino chi eravamo e anche chi siamo. Di quel modello socioeconomico che si è costruito. Oggi il dibattito pubblico è incentrato sulla salvaguardia degli orsi, sul blocco delle infrastrutture per mantenere gli ambienti intatti. Mancano all’appello iniziative coraggiose per le valli. Dobbiamo dire no al progresso incondizionato e al profitto a tutti i costi (lungi dal voler trasformare la montagna in un luna park), ma dobbiamo ricordarci che l’integralismo della tutela porta al risultato opposto: tutte le risorse finiscono al centro, creando nuovo abbandono e miseria (per fortuna abbiamo ancora quei pochi fondi UE che arrivano ogni tanto). Chi è fuori rimarrà sempre più solo e isolato.Ma poi? Quale modello di sviluppo per il futuro vogliamo avere? Oggi abbiamo i Nas che mettono in croce i casari per normative tecniche sempre più impossibili da seguire. Abbiamo amministratori che dicono di no alle centraline idroelettriche sotterranee perché fanno gli snob, ma intanto si perdono milioni di euro in possibili investimenti che potrebbero tornare sul territorio.L’unico sistema che, ad oggi, ha frenato il vero declino del bosco e della montagna sono le Asuc (Amministrazioni Separate di Uso Civico), i resti delle antiche consuetudini che attribuivano alla comunità quelle poche entrate che si potevano generare da un bosco.È inevitabile che quella corsa di fuga dalle montagne riparta di nuovo. Tra orsi e mancanza di futuro torna la paura del vivere in montagna.Matteo Rizzi