il Giornale, 2 ottobre 2024
«C’era una volta in America» uscì quarant’anni fa
Il 29 giugno 1933 al Madison Square Garden di New York, il gigante Primo Carnera (204 centimetri per 122 chili), conquista il titolo di campione del mondo dei pesi massimi, davanti a 35 mila spettatori, battendo alla sesta ripresa l’americano di origine lituana Jack Sharkey. Il 19 luglio Carnera al porto di New York, in compagnia di migliaia di persone, saluta l’apparizione in cielo del primo aereo della squadriglia guidata da Italo Balbo. È la «Trasvolata atlantica del decennale», partita da Orbetello il primo luglio. Nel 1933 in pieno proibizionismo si apre il capolavoro di Sergio Leone C’era una volta in America. Un’opera grandiosa. Esattamente quarant’anni fa usciva nelle sale italiane. L’avventura di C’era una volta in America era cominciata bene a Cannes, in maggio. Ma il debutto americano, in giugno, era stato un disastro. Lo sciagurato distributore statunitense aveva ridotto la versione licenziata da Leone da 229 minuti a 139. Inoltre, l’aria che si respirava nel film era insolita: i gangster sullo schermo, da Al Capone di Scarface (1932) di Howard Hawks in poi, perlopiù sono italo-americani. Più italo che americani. Quelli di C’era una volta in America sono ebrei. David Aaronson (Robert De Niro), Max Bercovicz (James Woods), Patrick Goldberg (James Heyden), Philip Stein (William Forsythe). È la banda di criminali newyorkesi, messa in piedi in gioventù, arricchitasi a dismisura nell’età del proibizionismo. Dove esce C’era una volta in America si regge sulle gambe. Però non corre. Anche in Italia. Ma è un dettaglio. Insignificante. Due anni prima Blade Runner di Ridley Scott ha marciato con il freno tirato. Eppure, col trascorrere del tempo, è diventato un’icona visiva contemporanea. Lo stesso accade a C’era una volta in America. Gli ardimentosi salti temporali chiedono allo spettatore di partecipare attivamente. Dal 1933 si piomba nel 1968. Poi al 1918. Di nuovo al ’68.
Quando nel 2012 venne presentata a Cannes la versione definitiva 251 minuti si pensava che il mistero del senso compiuto del racconto potesse trovare risoluzione. Ma non è così. Le grandi opere devono sempre conservare qualcosa di misterioso. A chi le ammira, di generazione in generazione, la libertà di comprenderle. C’era una volta in America è l’ultimo film diretto da Sergio Leone. Avrebbe voluto realizzare un’opera ciclopica sulla battaglia di Stalingrado. Ma gli è mancato il tempo. Leone, il più anomalo dei grandi registi italiani. Tutti i suoi film non hanno nulla di italiano. Ha realizzato due peplum (antichità greco-romana), Gli ultimi giorni di Pompei (1959) e Il colosso di Rodi (1961); tre western all’italiana, Per un pugno di dollari (1964), Per qualche dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto, il cattivo (1966); un western classico (il più grande del genere per eccellenza americano), C’era una volta il West (1968); una debordante celebrazione della rivoluzione messicana, Giù la testa (1971); e un gangster, C’era una volta in America. Caso davvero singolare, poiché la stragrande maggioranza della cultura italiana novecentesca ha mostrato per l’America, e l’americanismo, indifferenza, fastidio e troppo spesso repulsione. In epoca fascista l’America è stata considerata una terra incolta, sconsiderata e pericolosa. In epoca antifascista sono solo state sostituite le lenti ideologiche. Il risultato, più o meno, è rimasto lo stesso. Ma l’americanizzazione dell’Occidente è arrivata non con le armi o con i dollari. È arrivata attraverso le immagini. Sarà difficile, se non impossibile, per un regista del futuro nonostante il digitale, la realtà virtuale e ciò che verrà, raggiungere la perfezione stilistica di C’era una volta in America. Si può chiedere a uno scultore, anche di grande talento, di realizzare una statua come Ercole e Lica di Antonio Canova? I quarant’anni che ci separano dalla prima apparizione di C’era una volta in America ci hanno fatto apprezzare quanto Sergio Leone fosse un autore immerso nel proprio tempo quando il cinema italiano era la fucina più creativa della celluloide e proiettato nel futuro.
Non disponendo degli effetti speciali odierni li cercava, li creava, li spremeva, li estorceva al mezzo cinematografico: immagine in movimento, suono, parola. Memorabile è la scena del vecchio Noodles, capelli bianchi, occhiali da vista. Ha appena recuperato un tesoro, con 35 anni di ritardo. Si trova in strada. È buio. Cammina sotto un ponte con passo affrettato, ben serrata la valigetta fra le mani. Ha l’impressione di essere tallonato. Si guarda intorno. A un tratto un rumore metallico. Un frisbee gli passa sopra la testa. Si piega. Una mano lo afferra. L’immagine successiva ripiomba al 1930. Noodles ha appena lasciato la prigione. Martin Scorsese ha commentato questa sequenza: puoi soltanto rifarla. Non parliamo della colonna sonora di Ennio Morricone. È un’elegia musicale. L’indispensabile completamento, attraverso il suono, dell’«opera d’arte totale».
Per concludere, la parola. Noodles tornato al bar della giovinezza, ritrova l’unico vecchio amico sopravvissuto. Non si vedono da una vita. «Che cosa hai fatto tutti questi anni»? La risposta di Noodles è lapidaria quanto geniale: «Sono andato a letto presto, la sera». Parole scolpite nella pietra pregiata. Sopravviveranno al tempo che scorrendo prima impolvera, poi sgretola le tracce del passato. Ma non quella lasciate da Sergio Leone.