il Giornale, 2 ottobre 2024
La critica che parla solo dei romanzi
In libreria è appena uscita una Intervista a Pier Paolo Pasolini a cura di Angelo Gaccione e Giorgio Colombo (Rogas edizioni, pagg. 84, euro 10,70). Il testo è la trascrizione di una chiacchierata avvenuta nel settembre 1961 in un bar di Torino. Da una parte, Pier Paolo Pasolini, dall’altra un gruppo di giovani esponenti del Cras (Centro di ricerca applicazione e studi). L’atmosfera è amichevole e lo scrittore-regista risponde volentieri alle molte domande. Il cuore della conversazione riguarda il cinema, Accattone in particolare, ma spazia in tutti i campi dell’arte. Forte è il peso dell’ideologia, soprattutto negli intervistatori. Si parla di realismo socialista, avanguardia, decadentismo, irrazionalismo. Si confrontano il linguaggio cinematografico e quello della narrativa. Pasolini spiega di aver iniziato a girare pur non avendo alcuna cognizione tecnica: «Non sapevo nemmeno che esistessero vari tipi di obiettivi, il 35 o il 50 o il 70. Poi addirittura mi sbagliavo, convinto che presa panoramica volesse dire campo lungo». La confidenza con la macchina da presa ha rivelato le affinità e le differenze irriducibili tra film e romanzo. Ad esempio, la possibilità offerta dalla metafora si direbbe maggiore in letteratura.
Ci sono passaggi ancora oggi fortemente attuali.
Un nodo importante è il rapporto tra lo scrittore, la produzione e la distribuzione delle opere. Insomma, il rapporto tra l’artista e l’industria editoriale. Pasolini: «La democratizzazione, nel senso di maggiore diffusione, di maggiore comunicazione col pubblico deriva anche da fatti che esulano da una coscienza democratica, perché derivano da una industrializzazione dell’editoria, che mentre fino a qualche anno fa era un fatto quasi artigianale, quando si pubblicavano al massimo 2-3000 copie, e pubblicare 2-3000 era già un successo, adesso, da qualche anno a questa parte, si raggiungono tirature di 100.000 copie». Il problema, ai tempi di Pasolini, era capire se l’aumento della tiratura fosse un segno di maggiore democrazia letteraria oppure un potenziamento del neocapitalismo, con tutte le conseguenze spiacevoli che ne conseguono. Oggi possiamo forse rispondere: la seconda che hai detto, Pier Paolo! E non è detto che le conseguenze siano sempre spiacevoli: l’aumento dell’offerta e delle traduzioni ci ha resi meno provinciali, oltre ad ampliare il pubblicodei lettori. Però... Non tutto è filato liscio. Oggi regna la convinzione che la letteratura italiana coincida in gran parte con il romanzo. Niente di più falso. La nostra tradizione coincide con la poesia, la novella breve, la prosa lirica. Il romanzo è un trapianto ben riuscito a opera di un genio, Alessandro Manzoni, capace di inventarsi Fermo e Lucia e I promessi sposi, due libri diversi, due possibilità linguistiche, due universi stilistici paralleli. Gabriele d’Annunzio ha provveduto a dare un’altra sferzata, «importando» genialmente Dostoevskij o il Decadentismo (salvo dare i risultati più alti, in prosa, con le Novelle della Pescara e le prose di Notturno). Nel Novecento abbiamo avuto grandi romanzieri, Italo Svevo, Carlo Emilio Gadda, Beppe Fenoglio, Giorgio Bassani, Pasolini stesso. Ma non abbiamo un Joyce, un Proust, un Kafka, un Beckett, un Hemingway ovvero un narratore noto in tutto il mondo. Guardate i nostri premi Nobel: per la maggior parte sono poeti o uomini di teatro. I romanzi italiani di oggi sono strani libri senza profondità linguistica: un po’ per ignoranza, un po’ per mancanza di riferimenti. Si assomigliano tutti. Sono un prodotto editoriale solo a tratti riscattato da reale ingegno stilistico.
L’idea della prevalenza del romanzo è anche il sintomo del crollo della critica letteraria. I critici hanno teorizzato il ruolo di mediatori tra industria e pubblico. Senza accorgersi che teorizzavano, in realtà, la proprio inutilità. Di fatto sono diventati, con le dovute eccezioni, un’appendice dell’industria libraria. Ma che bisogno c’è di una critica così? Nessuno. Infatti i critici sono stati sostituiti dai giornalisti o dagli scrittori stessi. Cosa ancora peggiore, interi decenni di letteratura italiana sono caduti nel dimenticatoio anche nei libri per le scuole. Per anni, nella prima metà del secolo, accanto alla romanzeria popolare, gli intellettuali si sono espressi attraverso la prosa lirica e il frammento imparentato con la poesia. Tutto spazzato via e scomparso dai cataloghi. Via i vociani, da Giuseppe Prezzolini in giù, via i metafisici, da Giorgio de Chirico stesso a Filippo De Pisis. Via la saggistica satirica o patriottica o politica. Via i Papini e i Longanesi. Se togli tutto questo, il quadro è profondamente falsato e anche molto meno interessante. Ma il sacrificio è necessario perché vendono solo i romanzi, e dunque esistono solo i romanzi.