La Stampa, 2 ottobre 2024
Intervista a Ilan Pappé sulle prospettive del Medio Oriente
Su Tel Aviv piomba la risposta degli ayatollah e il Medioriente si blinda, l’orizzonte prima della pioggia. Il commento dello storico israeliano Ilan Pappé, critico irriducibile del sionismo a cui è dedicato anche il suo ultimo libro Brevissima storia del conflitto tra Israele e Palestina (Fazi), è lapidario: «Israele non avrà mai pace né sicurezza finché non metterà fine all’occupazione di milioni di palestinesi». Nessun cedimento alla memoria del 7 ottobre, all’alba del primo anniversario. Pappé scuote la testa canuta: «La pulizia etnica iniziata nel ’48 è la causa, la guerra la risposta». Chiusa lì, occhio per occhio.L’invasione del Libano, i missili iraniani su Israele. Siamo già oltre il baratro?
«Alla fine l’Iran dovrà trattenersi, non può affrontare una guerra regionale. In Israele invece la leadership politica è convinta che il potere militare sia l’unica strada, non considera alcuna soluzione diplomatica e vede il controllo dell’intera Palestina storica come l’unica chance di pacificare un Paese spaccato tra religiosi e laici. Per questo, come in Libano, Israele insisterà con la forza: non so se schiaccerà la terza intifada iniziata il 7 ottobre, ma non rimuoverà il vero ostacolo alla pace che non è Hezbollah né l’Iran bensì l’occupazione di milioni di palestinesi».
Nel libro racconta una società lacerata tra lo Stato d’Israele, che difende il proprio essere democratico, e lo Stato di Giudea, in odor di teocrazia. L’abbiamo vista nelle proteste del 2023 contro Netanyahu che però sta recuperando. Che Paese è oggi Israele?
«Un anno dopo il 7 ottobre Israele è quel che era prima, un Paese fratto dove lo Stato di Giudea guadagna terreno. I più laici stanno facendo le valigie e quelli che restano si condannano al silenzio, perché rifiutano la teocrazia ma non hanno un piano per la Palestina. Israele è ormai guidato da una élite messianica che sogna di modellare il nuovo Medioriente con la complicità di un mondo sempre più a destra e in spregio delle Nazioni Unite».
C’è chi chiama terrorismo la risposta israeliana al pogrom del 7 ottobre. È così e crede sia plausibile paragonare Israele, Hamas e Hezbollah?
«Hamas ha indubbiamente compiuto un massacro di civili. Ritengo però che la risposta d’Israele sia stata del tutto sbagliata, non tanto all’inizio, a caldo, ma dopo, quando ha deciso di punire con Hamas l’intera popolazione di Gaza. Il 7 ottobre non è la causa di quella politica genocidiaria ma il pretesto, l’opportunità per il movimento dei coloni di fare pulizia etnica a Gaza e in Cisgiordania. La vita stessa degli ostaggi, per la prima volta nella storia dello Stato ebraico, è stata tutt’altro che una priorità».
Lei è un implacabile critico del sionismo. Neppure dopo il massacro dei kibbutz più pacifisti ha deposto le armi?
«Quei kibbutz definiti pacifisti sono stati costruiti sulle rovine dei villaggi palestinesi distrutti prima e dopo la nascita d’Israele mentre chi li ha attaccati appartiene alla terza generazione di profughi. Nel ’48 è stato il sionismo di sinistra a incoraggiare i coloni, cacciando le popolazioni indigene e creando a Gaza il mega campo profughi che dopo il ’67 sarebbe diventato una mega prigione. Non puoi vivere accanto a una prigione e pensare che là dentro ti amino perché li aiuti. Sto con tutte le vittime del 7 ottobre ma non con il loro progetto sionista che è stato e sarà sempre un problema perché è immorale e non funziona».
Da un lato c’è Israele ostaggio di coloni irriducibili, dall’altro una causa palestinese a cui l’islamismo ha scippato la matrice anticoloniale volgendola in religiosa. Di Israele ci ha detto, del fronte opposto?
«Il movimento anticolonialista palestinese non è diverso dagli altri: quando la sinistra ha ottenuto dei risultati è stata premiata dal consenso, quando lo ha mancato la gente ha cercato un’alternativa. Penso che gran parte dei palestinesi non voglia Hamas ma la liberazione e che veda il movimento islamico come l’unica forza in lotta per la liberazione. Se Oslo avesse funzionato i laici guiderebbero oggi i palestinesi, invece dal 1993 le cose sono andate sempre peggio e l’islam è rimasto l’estrema trincea della resistenza. Mi spaventa più l’involuzione israeliana delle oscillazioni ideologiche palestinesi perché storicamente, fuori dall’occidente, l’islam e la sinistra sono riusciti a lavorare nella stessa direzione».
In Iran, dove nel ’79 le sinistre affiancarono Khomeini salvo esserne poi annientate, avrebbero molto da ridire...
«È vero, in Iran non ha funzionato ma in Tunisia sì. Ogni Paese ha la sua storia e comunque l’islam politico iraniano deve essere riformato se vuole giocare un ruolo nella regione».
Non ha paura di evocare il genocidio dei palestinesi additando Israele. Ammetterà che gli altri non sono tutti angeli.
«Non idealizzo Hezbollah né Hamas. La violenza politica è evidente, la sua radice meno. In Libano prima della fase coloniale, esisteva un’identità collettiva in cui le religioni convivevano. Il settarismo è arrivato con le potenze straniere».
La strada di Hezbollah è lastricata dalle lapidi di Samir Kassir, May Chidiac, Gebran Tueni, intellettuali uccisi per le loro critiche. C’è un Ilan Pappé nel mondo islamico?
«Ne conosco molti. Ma nelle guerre di liberazione le critiche non sono benvolute, dubito che i partigiani italiani in lotta contro i nazifascisti ambissero al confronto democratico».
Ripete che c’è un prima del 7 ottobre. Può, nel dopo, un Iran ridimensionato riaprire gli accordi di Abramo e il piano due popoli per due Stati?
«Quella di due popoli per due Stati è una strada morta. E non vedo speranza nella politica israeliana futura: continuerà a virare a destra. Inoltre, non sono i popoli ma i regimi a volere gli accordi di Abramo. E se gli Stati arabi diventassero democratici sarebbero ancora più ostili a Israele perché la causa palestinese incarna un sogno che essendo ancora in potenza potrebbe correggere gli errori dei Paesi già decolonizzati. L’unica via d’uscita dalla violenza è un’iniziativa internazionale volta a far nascere uno Stato democratico dal fiume al mare».
Uno Stato binazionale?
«Uno Stato per gli ebrei e i palestinesi, rifugiati compresi».
E come dovrebbe chiamarsi?
«Il nome non conta, potrebbe chiamarsi Nuova Palestina».
Una provocazione. E Israele?
«Gli ebrei dovrebbero accettare di non essere più maggioranza nel nuovo Stato. L’alternativa è la guerra, seguita dalla scomparsa d’Israele. Non puoi pensare di vivere opprimendo un altro popolo in eterno».
La pace si fa con i nemici, insegna Oslo: Israele potrebbe stringere la mano a Hamas?
«Dividersi la terra è impossibile. Forse non lo era nel ’67 ma ora le colonie sono ovunque. Alla Palestina toccherebbe il 22%: non si parla di strette di mano ma di contenuti».
In Italia, a ridosso dell’anniversario del 7 ottobre, la senatrice Liliana Segre è stata accusata di sionismo. Riemerge l’antisemitismo in occidente?
«L’antisemitismo c’è sempre stato e non sparirà. Credo però che oggi il razzismo sia peggiore dell’antisemitismo e che il bersaglio siano i musulmani. Mi dispiace per Segre ma focalizzarsi su un singolo è sbagliato. Ci sono tre tipo di antisemitismo: quello classico di antica matrice cattolica, quello radicato in alcuni ambienti musulmani minoritari e quello derivante dalla confusione tra ebraismo e Stato d’Israele che il sionismo ha molto voluto e che serve a Israele ma danneggia gli ebrei. Il sionismo è da sempre il male per gli ebrei».
Hanno visto di peggio, direi. Sono stati sterminati ben prima della nascita d’Israele.
«L’idea di Herzl che per battere il nazionalismo nazista servisse un nazionalismo sionista è folle. Non a caso il sionismo nasce in Europa: non sarebbe mai venuto in mente agli ebrei del mondo arabo perché lì la convivenza era nei fatti. L’antisemitismo dilaga dalla sovrapposizione tra identità ebraica e Israele. L’unica luce oggi arriva dai giovani ebrei che, specie in America, iniziano a rifiutare quell’equivalenza».