la Repubblica, 2 ottobre 2024
È l’aiuto reciproco il segreto della legge del più forte
Nella città di Omelas – scrive Ursula Le Guin in un suo noto racconto – durante la festa d’estate la temperatura è mite, il sole splende e «tra le sue torri fulgide in riva al mare… le case dai tetti rossi… i vecchi giardini invasi dal muschio e i viali alberati» ogni abitante della città danza, spensierato. Sono sani, forti, belli e gentili i cittadini di Omelas e – animali e piante compresi – sono felici. Tutti tranne un solo bambino che vive, malato e malnutrito, rinchiuso al buio di un umido seminterrato. In città chiunque conosce la situazione in cui vive questo unico infelice e sa che se a quel bambino fosse accordata un po’ di felicità, gli abitanti di Omelas non godrebbero più di quella perfetta condizione di gioia. Il dilemma è classico: saremmo disposti a comperare la felicità di un’intera comunità al prezzo dell’infelicità di una sola persona? E se, invece di una, ilprezzo fosse l’infelicità di due persone? O di cento, o di mille? Qual è la quantità di infelici che siamo disposti ad accettare?Allontanandoci dalla magnifica Omelas, all’interno delle nostre comunità, quanti sono gli esclusi che possiamo tollerare purché sia garantita la nostra felicità? Sembrerebbe una di quelle domande perfette per discutere di intelligenza artificiale: se dovesse essere una macchina a decidere quante persone possono essere destinate all’infelicità purché tutte le altre possano essere felici, quale sarebbe la soglia di infelici tollerabile? Una sola in meno della maggioranza di felici? Si tratta, senza dubbio, di un quesito squisitamente etico. Le sue radici, tuttavia affondano nella biologia evoluzionistica e, quindi, nei comportamenti fondamentali della nostra, come delle altre specie. Perché, infatti, gli esseri viventi investono una parte significativa delle loro capacità energetiche nel soccorso degli individui più deboli presenti all’interno delle loro comunità? A prima vista, sembrerebbe un comportamento del tutto illogico; incomprensibile senza far ricorso alla morale.Per spiegarlo bisogna incominciare dalle basi della teoria evoluzionistica; da quella lotta per l’esistenza che Darwin usa in maniera prevalentemente metaforica e che viene, al contrario, spesso intesa come l’enunciazione di una banale legge del più forte. La volgarizzazione del pensiero di Darwin per cui il “migliore” si identifica con il più forte o il più astuto, e la lotta per la sopravvivenza diventa una lotta senza pietà, la dobbiamo ad alcuni riprovevoli interpreti della sua opera: i cosiddetti “darwinisti sociali”. Fra questi si annoverano scienziati del calibro di Francis Galton, cui dobbiamo la fondazione dell’eugenetica, Thomas Henry Huxley, ed altri che alla fine del XIX secolo utilizzarono le idee di Darwin in chiave sociologica, per dare sostegno anche a teorie razziste o di giustificazione delle ineguaglianze sociali. Per Thomas Huxley, ad esempio, la metaforica lotta per l’esistenza di Darwin diventa il vero e tangibile corrispettivo naturale della «situazione di continua rivalità», di cui Hobbes scrive nel Leviatano, che porta gli esseri viventi a porsi nella «postura propria dei gladiatori» con «le armi e gli occhi fissi gli uni sugli altri».Dobbiamo a Thomas Huxley la divulgazione dell’immagine del gladiatore come quella più aderente ad un’idea dell’evoluzione in cui al di fuori di «limitate e temporanee relazioni famigliari, la guerra hobbesiana di tutti contro tutti» costituisce «il normale modello di esistenza». Una posizione che piace moltissimo. In poco tempo l’immagine della vita come un’arena di gladiatori impegnati a scannarsi fra di loro, diverrà la rappresentazione banale ed errata con la quale la teoria dell’evoluzione sarà conosciuta dai più. Una visione che produrrà, e continua purtroppo a produrre, enormi danni.In realtà, Darwin ha un’idea molto differente dell’evoluzione: non è il più forte o il più furbo o il più intelligente a sopravvivere, ma il più adatto. Un concetto rivoluzionario che non ha nulla da spartire con la mediocre banalità della visione gladiatoria della vita. Chi sia il più adatto, infatti, non è dato saperlo. Poiché non è possibile prevedere il futuro, non possiamo conoscere a priori quali saranno i requisiti che renderanno alcuni individui più adatti a sopravvivere. Ne consegue che una delle strategie più efficaci che una comunità possa adottare è di aiutare ciascuno dei molti individui che la compongono a sopravvivere. Indiscriminatamente: tutti e senza alcuna valutazione. In altri termini, una comunità che non si prende cura dei suoi infelici (direbbe la Le Guinn) ha minori possibilità di sopravvivere. È per questo che molte comunità naturali praticano il mutuo appoggio fra gli individui. Gli individui o le comunità più adatte, infatti, in barba ai darwinisti sociali e alle loro banali esaltazioni del migliore, sono senza dubbio quelle cooperanti; quelle in grado di costituire comunità.Nel 1902 Pyotr Alexeyevich Kropotkin, oppositore delle semplicistiche tesi di Huxley, dava alle stampe un fondamentale volume dal titolo Il mutuo appoggio come fattore dell’evoluzione, il cui incipit riguardante le sue esperienze in Siberia e Manciuria recita: «Da una parte vedevo l’estremo rigore della lotta per l’esistenza che quasi tutte le specie animali hanno da sostenere in queste regioni contro una natura inclemente; l’annientamento periodico di un enorme numero di esistenze, dovuto a cau- se naturali; e la povertà della vita sopra tutto il vasto territorio che ho avuto occasione di osservare. Dall’altra parte, anche in qualche zona ove la vita animale abbonda, non potei constatare – nonostante il mio desiderio di riscontrarla – questa lotta accanita per i mezzi di sussistenza, fra gli animali della stessa specie, che la maggior parte dei darwinisti consideravano come la principale caratteristica della lotta per la vita ed il principale fattore dell’evoluzione». Il 12 agosto del 1833, René Dutrochet, fisico e botanico francese, noto soprattutto per la scoperta dell’osmosi, legge davanti all’Accademia delle Scienze una sua memoria riguardante una foresta di abete bianco, nel Jura, in cui «tutti i ceppi, provenienti da alberi abbattuti almeno 45 anni prima, sono pieni di vita, così come lo sono le loro radici». È molto sorpreso, ciò che ha visto nelle foreste del Jura non ha spiegazione: come avevano fatto quei ceppi di abete bianco a sopravvivere per oltre 45 anni? Non vede altra possibilità che anche le radici di questi ceppi si ano in grado di produrre piccole quantità di linfa elaborata (ossia di zuccheri). È l’unica conclusione errata del suo splendido lavoro. In realtà, come si sa soltanto da qualche anno, sono le piante vicine – il mutuo appoggio – a tenere in vita questi ceppi, cui forniscono tutto quello di cui hanno bisogno attraverso le connessione sotterranee delle loro radici. Il mutuo appoggio o la cooperazione come, meno poeticamente, si usa dire oggi è uno dei motori dell’evoluzione e la sua azione agisce indifferentemente dal livello degli individui a quello delle comunità.Scrive Élisée Reclus, autore fra il 1875 e il 1894 di una monumentale Nouvelle Geographie Universelle in 20 volumi: «La storia ci mostra come la legge della lotta cieca e brutale per l’esistenza, tanto esaltata dagli adoratori del successo, sia subordinata a una seconda legge, quella del raggruppamento di individualità deboli in organismi sempre più sviluppati che imparano a difendersi dalle forze nemiche, a riconoscere le risorse del proprio ambiente e a crearne di nuove. Sappiamo che se i nostri discendenti raggiungeranno il loro alto destino di scienza e di libertà, lo dovranno al loro incontro sempre più intimo, alla collaborazione incessante, a questo mutuo aiuto da cui cresce a poco a poco la fratellanza».