la Repubblica, 2 ottobre 2024
Intervista a Luigi Celeste, che uccise il padre per difendere la madre e il fratelli, ex neonaista, han fatto un film su di lui, non si pente
Era destinato a poche righe in cronaca: abusi familiari, violenza, omicidio, carcere. La spirale dell’autodistruzione. Ma nel momento più buio Luigi Celeste, il giovane naziskin che nel 2008 venne condannato a dodici anni e quattro mesi per aver ucciso il padre che pestava e minacciava di morte la madre e il fratello, a Milano, ha scritto la sua vita in un libro: Non sarà sempre così. Quelle parole sono diventate rinascita. Oggi Celeste lavora come consulente informatico a Strasburgo, la sua storia è diventata un film potente, Familia, di Francesco Costabile, oggi in sala.Ha accompagnato il film alla Mostra di Venezia. Com’è stato?
«Ho vissuto quel momento con ansia, credo sia stato il giorno più importante della mia vita. Indubbiamente questo film chiude un ciclo della mia esistenza passata, anche se ho già cominciato da anni a viverne una nuova».
Il suo alter ego cinematografico, Francesco Gheghi, ha vinto come migliore attore nella sezione Orizzonti. Com’è stato rivivere la sua vicenda attraverso i corpi dei giovani attori?
«Molto duro. Nella settimana di Pasqua sono andato sul set, ho conosciuto gli attori, con cui prima avevo parlato al telefono. Il ricordo più forte è stata l’empatia, l’affetto di tutti, del cast e dei tecnici. Alla fine di ogni giornata di lavoro si sentiva in tutti noi una grande emozione».
Cosa le ha dato nel momento più difficile, in carcere, la spinta per scrivere il libro?
«Avrei preferito che questo film non nascesse. Avrei voluto una vita molto più serena. Questo film è venuto fuori dall’ascolto della sentenza di primo grado. Ho subito una grossa ingiustizia, una condanna a dodici anni e quattro mesi, quando il pubblico ministero, che aveva compreso la situazione, ne aveva chiesti dieci, con gli arresti domiciliari. Quel giudice mi ha colpevolizzato, anziché riconoscere che ho salvato mia madre e mio fratello dalla violenza di mio padre».
Sua madre avrebbe potuto essere un altro numero nella statistica dei femminicidi.
«Sì, quello era il finale che sembrava scritto. Il giudice di primo grado ha banalizzato ciò che era accaduto come una semplice lite familiare, senza considerare le denunce e le testimonianze che descrivevano chi era mio padre. Per lui sarei dovuto uscire di casa, quella sera. Se lo avessi fatto, tornando avrei trovato mamma e mio fratello non più in vita. Perché mio padre ci aveva minacciato con un coltello, pronto ad aggredire. Speravo in un po’ di comprensione, una pena mite, la possibilità di tornare a casa. Sono rimasto in carcere, è nata lì la determinazione a trovare un riscatto, dimostrare ai magistrati che avevano sbagliato il giudizio nei miei confronti».
Non ha provato rimorsi per quel che è successo.
«Nessuno, per come è andata quella sera. Sono tranquillo. Sono contento oggi di vedere mio fratello che è riuscito a farsi una famiglia, e mia mamma che fortunatamente è ancora in vita, nonostante l’ictus di un mese fa».
Come hanno reagito al film?
«Ne sono felici. Mi sono sempre stati vicini, in mezzo a tutto questo siamo passati e usciti insieme. Anche se io ho guidato la vettura, loro erano a bordo con me».
Lei all’epoca faceva parte di un gruppo neonazista, da cui poi si è distaccato.
«È stato fondamentale, nel film, rimarcare quel momento. Non si arriva lì per caso, perché lo scegli, perchè sei determinato a sposare ideali d’odio. A sedici anni ero appena uscito da tre anni e mezzo di comunità, mi ci avevano messo per i maltrattamenti di mio padre in famiglia. Mio padre entrava e usciva dal carcere, aveva la quinta elementare, mia mamma era altrettanto poco istruita: non mi hanno cresciuto leggendo il Mein Kampf prima di andare a dormire. Gli ambienti dell’estrema destra dall’esterno sembrano impenetrabili, oscuri. Ma dentro ci sono tante storie di dolore, che ho conosciuto: penso al ragazzino che c’era entrato perché aveva i genitori tossicodipendenti e in quel movimento si rispecchiava perché era contro la droga. Ognuno ha le sue motivazioni. Io dovevo sfogare una grande rabbia e ho trovato molta compatibilità con quelle idee di odio. Ne sono uscito nel momento in cui la rabbia è finita. Non parlo più con nessuno del gruppo da oltre dieci anni, auguro loro di trovare il proprio percorso al di fuori di quegli ambienti».
La sua vita oggi?
«Mi occupo di sicurezza informatica. In carcere ho studiato. Prima ero operaio, oggi lavoro per una agenzia europea. Sono soddisfatto, anche se nulla è arrivato gratis. Anche dopo il carcere ho rinunciato ad amicizie, frequentazioni. Non lo rimpiango, se i risultati sono una nuova vita, il libro, il film. Ben oltre le aspettative».
Il regista ha cercato un film che parlasse ai giovani.
«Mi chiedono spesso: come si esce da queste situazioni familiari? Bisogna interrogarsi se si ha la serenità di metter su famiglia. Mia madre era sola, ha sbagliato persona, si è trovata in una catena che ho dovuto spezzare. Guardo mio nipote, sereno, mi rivedo a undici anni, sottratto a mia madre che aveva denunciato mio padre, chiuso in comunità, senza colpe. Sulla schiena ho fatto tatuare la scritta “Familia”, i volti di mia mamma, mio, di mio fratello, di mia cognata e mio nipote. La mia famiglia».