Corriere della Sera, 2 ottobre 2024
Intervista alla nipote di Nicolò Carosio, telecronista
Lo chiamavano il Frank Sinatra del pallone, è stato la prima voce del calcio, il padre di tutti i teleradiocronisti. Nicolò Carosio, scomparso 40 anni fa, creava immagini con le parole quando il calcio non aveva immagini, con quella voce arrochita dalle sigarette ed educata dall’aplomb inglese, che sapeva fremere di passione senza mai sbroccare: «Ma con me la usava per cantare – racconta Paola Nicoletta Spinelli, ultima erede della famiglia –. Adorava le canzoni napoletane, specie quelle di Roberto Murolo. Quando gli dicevo: nonno, mi canti una canzone? M faceva sedere sul tavolo della sala da pranzo, mi metteva in testa un cappellino e intonava “Reginella”: t’aggio voluto bene a te, tu m’è voluto bene a me...».
Che nonno era Nicolò Carosio?
«Aveva quest’immagine di austero aristocratico d’altri tempi, burbero, elegante, lontano. Quando usciva di casa mia nonna ridendo diceva: ora che il gatto non c’è i topi possono ballare».
E invece?
«Era un uomo molto generoso, pieno di slanci, affettuosissimo che riempiva me e mio fratello Dino di regali. Ricordo quando mi portò una delle primissime bambole parlanti, tiravo un filo e lei parlava con me. Ero l’unica ad averla di tutte le mie amiche»
La chiamava con qualche vezzeggiativo?
«Vezzeggiativo direi di no. Mi chiamava Barabba come il bandito crocifisso. Sa, ero una bambina piuttosto vivace...».
I nonni vivevano a Milano, ma lei abitava a Cesena.
«Ma a 5 anni, siccome sapevo già leggere e scrivere, mamma e papà mi mandarono a Milano a fare la prima elementare dalle Orsoline. Per un anno ho vissuto a casa dei nonni: mi piaceva tantissimo con il suo parquet a spicchi larghi, il grande terrazzo al piano di sopra dove passavo le giornate a giocare».
Sarà stata viziatissima.
«Sì, ma a volte succedevano situazioni comiche. Alla Scala davano un balletto con Carla Fracci e nonno mi dice: mettiti l’abitino da sera che ti porto. Gli risposi: ma io non ce l’ho un abitino da sera. Ci rimase malissimo e chiamò mia madre indignato per lamentarsene. Era domenica e i negozi dove comprare vestiti erano chiusi. Rinunciammo».
Sapevate che nonno era una persona importante?
«Da piccola no, anzi ero convinto che tutti i nonni facessero la professione del mio, che fossero tutti Nicolò Carosio. Quando mi dicevano: Paola, vieni, c’è il nonno in tv, pensavo embè? Tutti i nonni vanno in tv. Scoprii chi era quando a scuola cominciarono a chiedermi se fossi la nipote di Nicolò Carosio».
Era il re della radio e della tv, frequentava il bel mondo.
«Lo sentivo parlare con la nonna di un certo Avvocato, di un certo Ingegnere. L’Avvocato era Agnelli, l’ingegnere Ferrari. Nonno era appassionato di motori, aveva partecipato a cinque Mille miglia, sia Ferrari che Agnelli gli regalarono automobili».
Raccomandazioni da nonno?
«Una volta invitai a casa una mia compagna di classe dicendole che era il mio compleanno, ma non era vero. Mi portò un regalo, facemmo una festicciola, e nonno, preso in contropiede, stette al gioco. Ma quando restammo soli mi disse: non devi inventarti bugie né per avere regali, né per farli. Se vuoi qualcosa chiedilo ma senza ingannare le persone».
Ha imparato la lezione?
«Ho l’orgoglio di dire che da lui ho preso proprio questo: la correttezza, la serietà, un certo rigore».
Si è mai arrabbiato con lei?
«Sì, avevo 18 anni, ero una ragazzina ribelle, mi piaceva andare contro un certo modo di vivere e di pensare, rompere schemi e tabù. Così decisi di andare a convivere con il mio fidanzato, una cosa ancora scandalosa negli anni Settanta. Nonno era cattolico, tradizionalista e democristiano, una cosa del genere per lui era inaccettabile. Mi telefonò furibondo e me ne disse di tutti i colori, cose irripetibili. Capii dopo che voleva solo proteggermi dai giudizi della gente».
Avete fatto pace però.
«Di più, sono diventata sua complice. Quando si ammalò, mia nonna lo mise a dieta rigida. Così quando veniva a Cesena, approfittava del pisolino dopo pranzo della nonna, e come se fossimo due cospiratori mi diceva sottovoce: vieni che andiamo in cucina così mi passi sottobanco un piattino di salame e formaggio e un bicchiere di vino...».
Vietargli i piaceri della tavola fu doloroso per lui.
«Sul tavolo aveva sempre quattro pacchetti di sigarette e al suo “whiskaccio” non rinunciava mai. Il piacere della tavola per lui era uno dei più importanti della vita, come le partite a carte. Nelle interminabili sfide che ingaggiava in famiglia mi voleva sempre accanto a lui. Diceva: stai qui che mi porti fortuna».
Ma nonno per chi tifava?
«Non ha mai voluto rivelare la squadra del suo cuore perché voleva che la sua imparzialità non fosse mai messa in discussione. Ormai però si può dire: nonno amava il Palermo, la squadra della sua città, ma aveva un debole per il Milan».
Nel 1949 Nicolò Carosio scampò al disastro di Superga.
«Doveva essere anche lui su quel volo con il Grande Torino ma c’era la comunione di mio zio Paolo e nonna non volle sentire ragioni, si impuntò e gli impedì di andare, salvandogli la vita. Ma non è stato l’unico disastro aereo a cui nonno è scampato».
Questa non la sapevamo.
«Doveva essere sul volo Alitalia partito da Roma che nel maggio del 1972 si schiantò contro la Montagna Longa a Palermo. Decise all’ultimo di non prenderlo, ci furono 115 morti. Era molto superstizioso, forse se lo sentiva».
Carosio ha commentato tremila partite, otto campionati del mondo, cinque Olimpiadi dal 1934 al 1970, ma anche gare di automobilismo, boxe, basket, nuoto e atletica.
«Ma con la Rai che amava si lasciò malissimo. Lo costrinsero ad andarsene con comportamenti che mio nonno considerò offensivi, la cosa finì persino in tribunale. Ne soffrì moltissimo ma non l’ho mai sentito dire una parola contro la Rai».
Durante i Mondiali del 1970 lo accusarono di insulti razzisti a un guardialinee etiope e lo rispedirono in Italia.
«Vergognoso. Per anni gli attribuirono un’infamia che non aveva mai detto, nonostante ci fosse la registrazione di quella partita. Forse era inviso a qualche dirigente e si calcò la mano per farlo andare via. Il tempo e l’evidenza dei fatti gli hanno dato ragione, ma visse malissimo quella situazione».
Morì il 27 settembre 1984. L’ultima volta che l’ha visto?
«Un mese prima che se ne andasse gli dissi che aspettavo un bambino e lui si illuminò. Gli piaceva pensare che fosse una nipotina, invece era un maschietto, Dario. Disse: alla camera della piccola pensiamo noi. Sono felice di avergli dato una grande gioia l’ultimo giorno che abbiamo vissuto insieme».
Come furono i suoi ultimi giorni?
«Aveva appena festeggiato le nozze d’oro con nonna Eugenia. Per dodici giorni è stato ricoverato alla clinica Città di Milano, a ucciderlo fu una broncopolmonite con edema polmonare. Al funerale feci di tutto per passare inosservata, mi nascosi persino dietro il portone della chiesa. A chi mi chiedeva se fossi la nipote di Carosio rispondevo che passavo di lì per caso. Avevo 26 anni e da quel giorno a Milano non sono tornata più».
Gli fu risparmiata poi una grande amarezza.
«L’anno dopo la scomparsa del nonno lo zio Paolo, fu condannato a 4 anni e mezzo di carcere per una truffa da 700 milioni. Finì su tutti i giornali proprio per il nome che portava e nonna non volle più vederlo. Diceva: per fortuna il nonno è morto sennò lo uccideva con le sue mani. Ho saputo della morte dello zio tre anni fa da un necrologio che mi ha spedito un cugino della mamma».
Suo nonno inventò termini come quasi gol, rete, calcio d’angolo, traversone. Lei segue il calcio?
«Non è mai stata una delle mie passioni. Ma poco tempo fa ho sentito dire da un telecronista la parola “ineffabile”. Ho pensato: ma guarda te, dopo cento anni i giovani parlano ancora come parlava il nonno...».